Premessa
Studiando le vicende di un onesto presbitero italiano, che soffrì su questa terra le “pene dell'inferno”, a causa di una falsa accusa di violenza sessuale, mi è tornata alla mente una calunnia di cui fu vittima san Macario il Grande (circa 300-390 d.C.), noto anche come Macario l'Egiziano, da non confondere con il contemporaneo san Macario di Alessandria. La miglior sintesi critica della sua vita e degli scritti a lui attribuiti è ancor oggi quella di Johannes Quasten, Patrology, Vol. III: The Golden Age of Greek Patristic Literature from the Council of Nicaea to the Council of Chalcedon, Christian Classics Inc., Westminster, Maryland 1986, pp. 161-168.
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Beato Angelico, Tebaide. |
San Macario il Grande calunniato
“Raccontava di se stesso l’abate Macario: “Quando ero giovane, stavo in una cella in Egitto [per Egitto s'intende la parte abitata di esso. Nota mia]; mi vennero a prendere e mi fecero chierico di un villaggio. Non volendo però restarci, me ne scappai in un altro posto. Da me veniva un uomo pio, che prendeva il lavoro che facevo con le mani e mi prestava aiuto. Accadde poi, a ragione di una tentazione diabolica, che una vergine cadesse nel peccato al villaggio. Quando fu incinta, le fu chiesto chi ne era stato l’autore. Ed ella rispose che era stato l’anacoreta. Allora gli abitanti del villaggio vennero a prendermi, mi appesero al collo delle pentole annerite di fuliggine e dei manici di coccio e mi portarono nel villaggio, battendomi a ogni via e dicendo: “Questo monaco ha rovinato la nostra vergine, prendetelo, prendetelo”. E mi picchiarono tanto che mancò poco che non morissi. Venne uno dei vecchi e chiese: “Fino a quando darete botte a questo monaco forestiero?”. Quello che mi prestava aiuto mi seguiva vergognandosi, perché gli lanciavano molte ingiurie: “Ecco l’anacoreta, – dicevano – di cui tu sei garante, guarda cosa ha fatto!”. E i genitori di lei aggiungevano: “Non lo lasceremo andare finché non ci avrà dato l’assicurazione che le corrisponderà gli alimenti”. Allora io parlai col mio servitore, che si impegnò in questo senso. Tornai alla mia cella, gli diedi tutte quante le ceste che avevo, ordinandogli di venderle e di dare da mangiare, col ricavato, alla mia donna. “Ecco, – dicevo tra me – Macario, hai trovato una moglie. Bisogna lavorare un po’ di più per mantenerla”. Mi davo da fare giorno e notte e le mandavo quello che facevo” (Detti dei Padri del Deserto. Serie alfabetica, a cura di Lucio Coco, Fabbri Editori, Milano 1997, pp. 193-194).
Il resto del racconto interpreta teologicamente (e quasi magicamente) le difficoltà incontrate dalla giovane incinta, quando, giunto il momento del parto, ebbe le doglie per diversi giorni senza riuscire a dare alla luce nulla: allora, per poter finalmente partorire, si decise a confessare la sua calunnia e ammise che non era stata messa incinta dall'anacoreta, ma da un certo giovane. Un episodio analogo, in cui la vittima di tale infamante calunnia fu un lettore di Cesarea in Palestina, è riferito nella Historia Lausiaca di Palladio (v. Palladio, La Storia Lausiaca, trad. it. di M. Barchiesi, IV edizione, Mondadori, Milano 1990, pp. 284-287).
Lussuria di alcuni monaci
Altri monaci non furono perseveranti nella virtù come san Macario il Grande (per quanto è dato sapere, si tratta di una virtù e, per i credenti, di una “santità” autentiche, non di una beatificazione ottenuta grazie al denaro e al potere), che non cedette alla sensualità, la quale può rendere facilmente i maschi schiavi e condurli alla dissoluzione morale (la sovrastimolazione sessuale a cui sono sottoposti i maschi nella nostra epoca non fa che frastornarli ed esporli a penosi turbamenti e al disagio psicologico, rendendo eccessivamente difficoltosa la “sublimazione” pulsionale): ad esempio, il giovane monaco Erone, abbandonò l'ascetismo e si recò nella città di Alessandria, dove, vinto dal desiderio di donna, si diede alla lussuria (ivi, pp. 140-141); un monaco di Scete ebbe a confessare all'abate Pafnuzio (il quale non si fece mai irretire dalle donne) che nemmeno dieci donne avrebbero potuto placare il suo smisurato desiderio sessuale: allora andò in Egitto e prese una donna, sfinendosi di fatica per procurarle il pane; in seguito, però, tornò a fare il monaco (v. Apophthegmata Patrum, in Ecclesiae Graecae Monumenta, Tomus Primus, a cura di Johannes Baptista Cotelerius [Jean-Baptiste Cotelier], Franciscus Muguet, Luteciae Parisiorum 1677, Pafnuzio, 4: adotto il diffuso sistema di citazione che prevede l'indicazione del nome del padre del deserto a cui si riferisce il detto, seguita da una virgola e dal numero di tale detto, al fine di facilitare la ricerca dei detti citati nelle numerossime raccolte che sono state pubblicate nel mondo); un altro anacoreta di Scete, l'abate Apollo, portava il peso di una colpa ancora più grave: quando faceva il pastore, aveva squarciato il ventre a una donna gravida per vedere in quale posizione stava il bambino nella pancia della madre (ivi, Apollo, 2). Un padre del deserto chiamato Matoes raccomandava di non frequentare ragazzi, donne ed eretici (ivi, Matoes, 11) e san Giovanni Colobos (dal greco “κολοβός”, nell'accezione di “basso di statura”), uno degli abati più autorevoli di Scete, non ebbe pudore di affermare che, se uno sazio (“χορταζόμενος” nel testo greco dei citati “Apophthegmata Patrum”) parla con un ragazzo, ha già fornicato (sic!) con lui nel pensiero: “ἐπόρνευσε τῷ λογισμῷ μετ᾿ αὐτοῦ” leggiamo per l'appunto nella trascrizione greca degli apoftegmi dei padri contenuta nell'opera curata da J.-B. Cotelier che ho citato sopra (ivi, Giovanni Colobos, 4); l'abate Isacco, monaco della colonia monastica delle Celle (vicina a quella di Scete, che fu saccheggiata per la prima volta dai predoni del deserto nel 407 d.C., mentre il padre Isacco era ancora in vita), consigliò ai confratelli di non prendere ragazzi con sé, adducendo come motivazione il fatto che quattro chiese di Scete erano diventate deserte per colpa loro (ivi, Isacco Presbitero delle Celle, 5). Addirittura Giovanni il Persiano, notando che uno dei monaci di un cenobio egiziano peccava con un ragazzo (che si pensava fosse tormentato da un demonio), non li rimproverò, ma si limitò a riflettere su chi era mai lui per poterli redarguire, se Dio, che li aveva creati, vedendoli, non li bruciava (ivi, Giovanni il Persiano, 1).
Anche san Macario l'Egiziano si trovò a consigliare di non dormire nella cella con un fratello che non gode di una buona reputazione (ivi, Macario l'Egiziano, 29) e, in relazione alla fine di Scete, ebbe a dire: “[…] quando vi vedrete arrivare dei ragazzi, prendete le vostre melote e ritiratevi” (ivi, Macario l'Egiziano, 5, trad. mia).
Persino la santa eremita Maria Egiziaca, prima della conversione, sfruttava i maschi facendo volontariamente la prostituta: si tramanda che pagò con il meretricio anche il viaggio a Gerusalemme, ove iniziò il suo lungo cammino di conversione (v. Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di Alessandro Vitale Brovarone e Lucetta Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995, p. 311).
Un'altra eremita, santa Sincletica, invece, decise, sin dall'adolescenza, di rimanere vergine e, nella maturità, dispensava alle sue discepole consigli di questo genere: “Non dare niente e non prendere niente dalla gente del mondo, non parlare con gli uomini, non scherzare con un ragazzo, solo così si calmeranno le tue passioni” (Meterikon. I detti delle madri del deserto, a cura di Lucio Coco, trad. it. di A. Sivak, Mondadori, Milano 2002, p. 63).
Morale sessuale
Indubbiamente i desideri sessuali offuscano la ragione (cfr. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 55, a. 8, ad 1; II-II, q. 151, a. 3, ad 2; Suppl., q. 49, a. 1, co.) e ottundono il senso morale, ma i più non vogliono porre nessun freno a essi e disprezzano il saggio insegnamento delle Sacre Scritture:
non fissare una bellezza che non ti appartiene.
e con lei non frequentare banchetti bevendo vino,
perché il tuo cuore non corra dietro a lei e per la passione tu non vada in rovina”.
“13Qualunque ferita, ma non la ferita del cuore,
Amare la purezza, a prescindere dai risultati che si riescono a ottenere nell'attuale società ginecolatrica (per ginecolatrìa s'intende l'“adorazione delle donne”, che è del tutto incompatibile con l'adorazione di Dio e la probità), è indice di rettitudine; coloro che sono rispettosi solo delle donne (purtroppo se ne trovano moltissimi, anche tra le persone influenti) sono sicuramente dei criminali: “25Mi sono applicato a conoscere e indagare e cercare la sapienza e giungere a una conclusione, e a riconoscere che la malvagità è stoltezza e la stoltezza è follia. 26Trovo che amara più della morte è la donna: essa è tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta preso” (Qo 7, 25-26. Bibbia CEI 2008). “19Ogni malizia è nulla di fronte alla malizia di una donna, possa piombarle addosso la sorte del peccatore!” (Sir 25, 19. Bibbia CEI 2008).
In epoca più recente, san Francesco d'Assisi, il grande santo patrono d'Italia, impartiva ordini improntati alla sua profonda predilezione per la virtù, vissuta nell'amore filiale verso Dio: “Comandava che fossero evitate del tutto le familiarità con donne, dolce veleno che corrompe anche gli uomini santi. Temeva infatti che l’animo fragile si spezzasse presto e quello forte si indebolisse. E ripeteva che, se non si tratta di una persona di virtù più che sperimentata, intrattenersi familiarmente con esse senza esserne contagiati è tanto facile, quanto, secondo la Scrittura, camminare sul fuoco senza scottarsi i piedi.
Per mostrare con i fatti ciò che diceva, presentava in se stesso un modello perfetto di virtù. Le donne infatti gli erano così moleste, da far credere che si trattasse non di cautela o di esempio, ma di paura o di orrore” (Tommaso da Celano, Vita seconda di san Francesco d'Assisi, trad. it. di S. Colombarini, in Fonti Francescane, Ed. Minor, coord. gen. E. Caroli, Movimento Francescano, Assisi 1986, [699] 112, pp. 419-420). Inoltre san Francesco “in particolar modo ingiungeva di evitare, con la maggior sollecitudine possibile, di aver confidenza, di chiacchierare e persino di guardare le donne, occasione di rovina per molti, affermando che, a causa di esse, lo spirito debole si corrompe e quello forte si indebolisce” (San Bonaventura, Vita di san Francesco, trad. it. di M. Spinelli, II edizione, Città Nuova Editrice, Roma 1981, p. 68; cfr. Mt 5, 28).
San Luigi Gonzaga (1568-1591), un santo di angelica purezza, eroico apostolo della carità e patrono della gioventù cattolica, era denominato “il Principino nemico delle donne”, in quanto, come riferisce il suo confratello biografo p. Alessandro Maineri, “con le Femmine poi fù [sic] egli sì cauto, sì circospetto, che a niuna giammai fissava lo sguardo in viso, nè pure alle Parenti più strette, nè pure alla Marchesa sua Madre” (Alessandro Maineri, Vita di s. Luigi Gonzaga della Compagnia di Gesù, Niccolò e Paolo Scionico, Genova 1734, p. 27).
La purezza autentica (oggi estremamente rara, se non impossibile, a causa dei costumi imperanti), non quella di facciata molto diffusa tra le persone bigotte, è il terreno ubertoso su cui può crescere il fruttuoso albero della carità verso Dio e verso tutti gli esseri umani, senza parzialità.
Le persone di genere maschile che si impegnano a vivere nella purezza sono attualmente, per lo più, disprezzate, derise, discriminate, turbate nella loro sensibilità (anche dai media) e sovente provocate con malizia per far loro perdere la pace interiore.
Sebbene l'uomo Gesù di Nazaret non coincida con il Cristo della Fede adorato dai cristiani, essi possono comunque, in certo qual modo, “generare” quest'ultimo, rendendolo realmente presente quale persona viva e operante: “Siamo madri, quando lo [Gesù Cristo] portiamo nel nostro cuore e nel nostro corpo attraverso l’amore e la pura e sincera coscienza, e lo generiamo attraverso il santo operare, che deve risplendere in esempio per gli altri” (S. Francesco d'Assisi, Lettera ai fedeli (Seconda recensione), in Fonti Francescane, Ed. Minor, coord. gen. E. Caroli, Movimento Francescano, Assisi 1986, [200], p. 103).
Chi desidera possedere sessualmente le donne non può essere umile, perché, per conquistarle, deve ergersi al di sopra di altri maschi.
Sigmund Freud scrive che “una piccola minoranza, per la sua costituzione, ha la possibilità di trovare la felicità sulla via dell’amore, ma perché ciò avvenga sono indispensabili ampie modificazioni psichiche della funzione amorosa. Tali persone si rendono indipendenti dal consenso dell’oggetto, spostando il valore principale dall’essere amati all’amare che essi fanno; si difendono contro la perdita dell’oggetto riversando il loro amore non su oggetti singoli, ma su tutti gli uomini nella stessa misura; ed evitano le incertezze e le delusioni dell’amore genitale, deviandolo dalla meta sessuale e trasformando la pulsione in un moto inibito nella meta. Lo stato che raggiungono in questo modo – quel loro sentire sempre sospeso, inalterabile, delicato – esternamente somiglia ben poco alle tempeste dell’amore genitale, da cui pure è derivato. San Francesco d’Assisi è forse il massimo esempio di come ci si possa servire dell’amore ai fini del senso interiore di felicità” (Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, in Il disagio della civiltà e altri saggi, trad. it. di M. Tonin Dogana, S. Candreva, E. Sagittario, C. L. E. Musatti ed E. A. Panaitescu, Editore Boringhieri, Torino 1985, pp. 237-238).
Nessuno trova più il coraggio di rimproverare le donne che con il loro abbigliamento troppo sensuale e provocante (cfr. 1 Tm 2, 9-10; 1 Pt 3, 3-4; Pr 7, 10-11; Is 3, 16-24; S. Th., II-II, q. 169, a. 2, co.; sul trucco delle donne, la “mulierum fucatio”, v. S. Th., II-II, q. 169, a. 2, ad 2) impediscono di rimanere tranquilli a molti maschi che vorrebbero o dovrebbero rimanere tali e che invece, sospinti dal naturale desiderio sessuale (i maschi sono spesso attaccati e colpevolizzati proprio sulla sessualità), spasimano penosamente, manifestando in molti casi comportamenti aggressivi verso gli altri maschi, e diventano spesso succubi di simili donne, le quali, anziché rispettare la sensibilità maschile, le fanno violenza e la sfruttano. “È grande profanazione che le donne entrino in chiesa ed assistano alle sacre funzioni vestite indecentemente” (Giuseppe Frassinetti, Compendio della teologia morale di S. Alfonso M. de' Liguori, Vol. I, ristampa dell'Undicesima Edizione, Società Editrice Internazionale, Torino 1944, p. 434). Scardinata la morale sessuale, che è paradigmatica, verrà meno anche l'intera morale sociale e quindi la morale cristiana cattolica nel suo complesso (l'etica cattolica tradizionale propagandava valori che salvaguardavano anche i non credenti). Se non si modera l'impulso sessuale, non è possibile nessuna morale. L'immenso potere delle donne si basa sulla seduzione sessuale: per il bene di tutti bisogna sottrarre alle persone di genere femminile il potere di vita e di morte che è stato loro concesso e impedire loro di nuocere ingiustamente ai maschi.
Giova ricordare, in questo tempo di gravi fraintendimenti, che il fine naturale della sessualità (la ragione per cui essa esiste in natura) è la procreazione (cfr. Gen 1, 22. 28; 8, 17; 9, 1; S. Th., Suppl., q. 49, a. 2, co. e ivi, a. 5, ad 1; in merito al “peccatum” e al “vitium” “contra naturam”, che può consistere anche nel c.d. peccato o vizio solitario, v. Gen 18, 20-21; 19, 4-5. 12-13; 38, 8-10; Lv 18, 22-23; 20, 13. 15-16; Gdc 19, 22; Rm 1, 26-28; 2 Pt 2, 6-10; Gd 7; S. Th., II-II, q. 154, a. 1, co. e ivi aa. 11-12: al n. 966 del Catechismo Maggiore, promulgato da s. Pio X, troviamo scritto che il “peccato impuro contro l’ordine della natura” è uno dei “peccati che si dicono gridare vendetta nel cospetto di Dio”). Quantunque sia indubbio che le persone di orientamento omosessuale non debbano essere in alcun modo discriminate, è altresì errato affermare, con atteggiamento altrettanto discriminatorio, che esse, in genere, sono “migliori” di quelle eterosessuali e garantire loro dei privilegi (in questo ambito, moltissimi stereotipi e pregiudizi vengono spacciati per verità). Si riscontrano stupri anche da parte di persone omosessuali, a volte ai danni di persone eterosessuali. Ad ogni buon conto, oggi i potenti e i mass media
al loro servizio parlano di queste questioni (molto strumentalizzate a fini politico-ideologici) in modo eccessivo e spesso inutile (cfr. Ef 5, 3-4), sia per ottenere facilmente
interesse e consensi sia per distogliere l'attenzione da “strutture di peccato” (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1869) e da altri problemi rilevanti che non si vogliono affrontare.
Purtroppo, a causa dell'attuale contesto socio-normativo – molto penalizzante per i maschi – che negli ultimi decenni si è voluto creare in diverse nazioni, fra cui l'Italia, non appare più vantaggioso per gran parte delle persone di genere maschile contrarre matrimonio.
Il femminismo misandrico (propugnato anche da moltissimi maschi) sta portando alla rovina le società occidentali.
Alla luce dell'insegnamento tomistico, la “virginitas”, cioè il proposito di astenersi in perpetuo dalla voluttà venerea (cfr. S. Th., II-II, q. 152, a. 1, co. e ivi a. 3, co.), deve essere senza dubbio preferita alla continenza coniugale (v. S. Th., II-II, q. 152, a. 4, co; DS 1810; Pio XII, Lett. Enc. Sacra Virginitas).
La legge naturale
Coloro che disprezzano (anche solamente in cuor loro, come fanno gli ipocriti e le ipocrite, che ormai dominano la scena – sia laica che ecclesiale – di questo mondo) i valori etico-spirituali, non necessariamente cattolici, e propongono stili vita caratterizzati da un edonismo consumista e superficiale, alieno da ogni profondo sentimento di solidarietà umana, dovrebbero confrontarsi con le memorabili parole di papa Paolo VI: “Come dobbiamo vivere? Così come viene, senza pensarci? Dobbiamo essere passivi e conformisti rispetto all’ambiente, al tempo, al costume, alla moda, alle leggi, alle necessità, in cui praticamente ci troviamo, ovvero dobbiamo in qualche modo reagire, cioè agire con criterio proprio, con una certa libertà, almeno di giudizio e, dove è possibile, di scelta? [...] [La legge naturale] ci difende dall’accusa, che spesso la letteratura fa alle persone devote, d’essere cioè scrupolose nell’osservanza di regole pie e minuziose, e di non esserlo altrettanto nell’intransigente fedeltà alle norme basilari dell’onestà umana, come la sincerità, il rispetto alla vita o alla parola data, la correttezza amministrativa, la coerenza del costume con la professione cristiana, e così via. […] Nello smarrimento odierno della nozione di bene e di male, di lecito ed illecito, di giusto e d’ingiusto, e nella demoralizzante diffusione della delinquenza e del mal costume, noi faremo bene a conservare e ad approfondire questo senso della legge naturale, cioè della giustizia, dell’onestà, del bene, quale la retta ragione non cessa d’ispirare nell’interno della coscienza” (Paolo VI, Udienza Generale di Mercoledì, 4 marzo 1970, Dicastero per la Comunicazione-Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano; cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 16 e Dich. Dignitatis humanae, n. 3).
Le molte persone che non vogliono o non riescono a rinunciare al soddisfacimento pulsionale, quando tale rinuncia è indispensabile per uniformarsi alle norme morali o giuridiche, ovviamente non sono nemmeno in grado di comportarsi in modo sempre rispettoso di esse.
Nella Lettera ai Romani, Paolo di Tarso, discostandosi dalle concezioni giudaiche dominanti, arriva ad affermare: “12Tutti quelli che hanno peccato senza la Legge [la legge mosaica contenuta nella Torah], senza la Legge periranno” (Rm 2, 12. Bibbia CEI 2008), perché, prescindendo da ogni rivelazione positiva, la legge naturale è già scritta nei cuori dei non ebrei (“ἔθνη” nel testo greco dell'epistola): “14Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. 15Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono” (Rm 2, 14-15. Bibbia CEI 2008; cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1776-1782; Aurelius Augustinus, Confessionum libri XIII, Liber II, 4, 9: PL 32, 678, in cui leggiamo un riferimento esplicito alla “lex scripta in cordibus hominum, quam ne ipsa quidem delet iniquitas”, ovvero alla “legge scritta nei cuori degli esseri umani, che neppure l'iniquità stessa può cancellare”).
Per il neotomista Jacques Maritain (così come, in età antica, per Filone di Alessandria, Tertulliano e Agostino d'Ippona), “i precetti del Decalogo [cfr. Es 20, 2-17; Dt 5, 6-21. Nota mia] sono essenzialmente una formulazione rivelata dei princìpi della legge naturale” (Jacques Maritain, La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, edizione italiana a cura di A. Pavan, terza edizione, Morcelliana, Brescia 1979, p. 111; cfr. Aurelius Augustinus, Enarrationes in Psalmos, 57, 1: PL 36, 673; S. Th., I-II, q. 100, a. 3, co.; II-II, q. 122, a. 1, co. e Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1955): quindi il Decalogo mosaico può essere osservato sia come “ordinatio rationis” (“comando” o, per meglio dire, “ordinamento della ragione”) sia come “ordinatio fidei” (“comando” o “ordinamento della fede”). Infatti la promulgazione divina di questa legge non fa che confermare ciò che gli esseri umani potrebbero già conoscere per mezzo della “scintilla conscientiae” o sinderesi (generalmente intesa come la capacità naturale della coscienza di conoscere i princìpi morali universali e quindi di distinguere naturalmente il bene dal male: cfr. S. Th., I-II, q. 91, a. 2, co.; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1780): nel pensiero di s. Tommaso, la “conscientia” è l'applicazione della conoscenza individuale a un atto particolare (v. Tommaso d'Aquino, Quaestiones disputatae, De veritate, q. 17, a. 1, co.; cfr. anche a. 2, co. e a. 3, co. della quaestio cit.; S. Th., I, q. 79, a. 13, co.).
Il citato Tommaso d'Aquino, prendendo le distanze dall'opzione volontaristica del francescano, suo contemporaneo, s. Bonaventura da Bagnoregio – poi ripresa in maniera più sistematica da Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham –, assegna alla ragione e all'intelletto un primato sulla volontà (cfr. S. Th., I-II, q. 9, a. 1, co.) e si pone così al di fuori delle correnti volontaristiche (per i volontaristi la voluntas, la volontà, è preminente sulla ratio, sulla ragione, e, se una cosa è buona perché è voluta da Dio, non è voluta da Dio perché è buona) medievali, che trovano le loro radici nel nominalismo di Severino Boezio (estremizzato, alcuni secoli dopo, da Roscellino di Compiègne), il quale nega ogni contenuto reale alle categorie aristoteliche (per Aristotele le categorie hanno una valenza sia logica che ontologica e sono i predicati ultimi e più generali dell'essere, quindi ciò che, in maniera non ulteriormente riducibile, si può predicare in relazione a un certo soggetto: ad esempio la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, ecc.). Riprendendo da Cicerone e s. Agostino il concetto di lex aeterna (legge eterna), s. Tommaso considera la legge naturale una partecipazione ontologica, nella
creatura razionale (proporzionalmente alle capacità di quest'ultima),
della legge eterna (v. S. Th., I-II, q. 91, a. 2, co. e ivi a. 4, ad 1), che corrisponde al piano razionale con cui Dio, quale principe dell'universo, governa le cose (v. S. Th.,
I-II, q. 91, a. 1, co.). Alcuni partecipano più, altri meno della
conoscenza della verità e quindi conoscono più o meno anche la legge
eterna (v. S. Th., I-II, q. 93, a. 2, co.). Possiamo agevolmente comprendere che la legge naturale (intesa come complesso di regole di comportamento dettate dalla ragione e non dai meri istinti biologici, come invece pretenderebbe la riduttiva concezione naturalistica di essa: v. S. Th., I-II, q. 91, a. 6, co.) si estrinseca e si realizza come diritto naturale, se spostiamo la nostra attenzione dalla dimensione puramente morale a quella stettamente giuridica, che considera le relazioni di giustizia fra gli uomini. Il vocabolo “iustitia” (“giustizia”) deriva da “ius” (e non viceversa, come riteneva erroneamente il giureconsulto romano Ulpiano: v. Ulp. 1 inst. D. 1.1.1 pr.), termine latino che indica il “diritto” e che, a giudizio di alcuni filologi, contiene in sé la radice sanscrita yu, che esprime il concetto di unire e obbligare, e/o quella yoh, che evoca la sfera del divino e del sacro. Per Ulpiano, “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi” (Ulp. 1 reg. D. 1.1.10 pr.; cfr. Giustiniano, Institutiones, I. 1 pr.), vale a dire: “Giustizia è la ferma e stabile volontà di attribuire a ognuno il suo diritto”.
Secondo Tommaso d'Aquino, la promulgazione della legge naturale consiste nel fatto che Dio l'ha inserita nelle menti degli uomini in modo che sia naturalmente conosciuta (v. S. Th., I-II, q. 90, a. 4, ad 1): benché la questione sia alquanto dibattuta, possiamo affermare che, al tempo dell'Aquinate, la “promulgatio legis”, cioè la “promulgazione della legge”, s'identificava generalmente con la sua pubblicazione, in forza della quale essa acquistava efficacia giuridica. Lo stesso s. Tommaso ci fornisce questa definizione di legge, divenuta celeberrima: “[lex] nihil est aliud quam quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet, promulgata” (S. Th., I-II, q. 90, a. 4, co.), che significa: “[la legge] non è nient'altro che un comando [o, più compiutamente, un ordinamento] della ragione finalizzato al bene comune, promulgato da chi ha la responsabilità di una comunità”. Circa tredici secoli prima dell'Aquinate, Cicerone (che mutua dallo stoicismo la concezione secondo cui il Logos divino è presente non solo nella ragione umana, ma in tutto il cosmo, il cui ordine necessario, immutabile e razionale denota, per gli stoici, l'esistenza di due princìpi: uno passivo, la materia, e l'altro attivo, il suddetto Logos, che permea la materia di razionalità) aveva scritto: “[...] lex est ratio summa insita in natura, quae iubet ea, quae facienda sunt, prohibetque contraria” (Marcus Tullius Cicero, De Legibus, I, VI, 18, secondo l'edizione contenuta in Cicero, On the Republic. On the Laws, The Loeb Classical Library, 213, translated by Clinton Walker Keyes, Harvad University Press, Cambridge, MA 1928, p. 316), vale a dire: “[...] la legge è ragione [“ratio”] somma insita nella natura, che comanda ciò che si deve fare e proibisce il contrario”. Per Cicerone nulla è più importante del comprendere pienamente che il diritto (“ius”) è stato stabilito non dall'opinione, ma dalla natura: “[...] nihil est profecto praestabilius quam plane intellegi [...] neque opinione, set [sic] natura constitutum esse ius” (ivi, I, X, 28, p. 328). In modo assai elementare, un giurista romano del II secolo d.C. chiamato Gaio, all'inizio delle sue famosissime Institutiones (I. 1), dopo aver dichiarato che esiste un diritto comune a tutti gli uomini, afferma che “questo diritto, che la ragione naturale [“naturalis ratio”] ha stabilito fra tutti gli uomini, è osservato egualmente presso tutti i popoli e viene denominato diritto delle genti [“ius gentium”: cfr. Ulp. 1 inst. D. 1.1.1.4], come a significare che di quel diritto si servono tutte le genti” (le trad. it. sono mie).
Nei casi in cui il diritto umano positivo (costituito dalle norme vigenti promulgate dall'autorità ecclesiastica o dallo Stato e dalle organizzazioni internazionali, come ad esempio l'UE, in favore delle quali lo Stato consente limitazioni della propria sovranità) rinneghi il diritto naturale, mediante norme giuridiche ingiuste che ledono i diritti originari, inviolabili, inalienabili e imprescrittibili della natura umana (quali, ad esempio, i diritti alla vita, all'integrità fisica e psicologica, alla libera manifestazione del proprio pensiero, al rispetto e al buon nome, di cui ogni persona, per il solo fatto di esistere, naturalmente gode), sussiste un vero e proprio diritto naturale alla rivoluzione o alla resistenza attiva (oltre che passiva, consistente in un atteggiamento non collaborativo, in un non facere) contro tali norme, così come, analogamente, è lecito, secondo Tommaso d'Aquino, resistere ai cattivi governanti come a dei briganti (v. S. Th., II-II, q. 69, a. 4, co.; cfr. S. Th., II-II, q. 42, a. 2, ad 3; I-II, q. 105, a. 1, ad 5): anche da un punto di vista cristiano, non solo è lecito, ma talvolta è persino doveroso resistere al malvagio (malgrado la proibizione di Mt 5, 39) e opporsi attivamente alla violenza fisica e morale per difendere o ristabilire diritti non disponibili propri o altrui (cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 74h). Chiaramente questi diritti vengono resi effettivi nei rapporti interpersonali solo se si impongono agli esseri umani i corrispondenti doveri, perché i diritti soggettivi rischiano di rimanere mere aspirazioni se gli altri non sono obbligati a rispettarli. Quindi è compito del legislatore umano far sì che il diritto positivo attui le esigenze del diritto naturale (in senso non tanto teonomico quanto antropocentrico), anche se le norme giuridiche da sole non bastano: occorre altresì educare le persone a vivere secondo la legge naturale dettata dalla ragione, che non è sempre percepita da tutti chiaramente e immediatatamente, in modo che l'habitus, inteso come la disposizione a comportarsi in un certo modo, si consolidi in abitudine. Una legge umana in tanto ha natura e vero valore di legge, in quanto si uniforma alla retta ragione (cfr. Marcus Tullius Cicero, De Re Publica, III, XXII, 33, in Cicero, On the Republic. On the Laws, cit., p. 210), ovvero in quanto deriva dalla legge naturale: pertanto, nella misura in cui essa si discosta dalla ragione, non ha più natura di legge, ma di violenza (v. S. Th., I-II, q. 93, a. 3, ad 2), perché una legge umana che si allontana in qualcosa dalla legge naturale non è più legge, ma corruzione della legge (v. S. Th., I-II, q. 95, a. 2, co.). Il marcato disagio sociale dei nostri giorni dimostra che la violazione sistematica della legge naturale comporta sanzioni molto più dure di quelle previste per le trasgressioni delle leggi positive umane (cfr. il Post La vittoria di Antigone). Ne consegue che l'obbedienza al diritto naturale non significa affatto un'obbedienza passiva all'ordine sociale costituito (un'obbedienza, cioè, concepita come un prodotto di quella che i marxisti denominano “ideologia di classe”), perché il diritto naturale non rappresenta una traduzione in astratti termini giuridici di una realtà di stratificazioni sociali e di classe che si pretendono predisposte ab aeterno, sebbene storicamente il concetto di diritto naturale sia stato spesso invocato per giustificare privilegi contrari al diritto naturale stesso. Infatti “[...] quod ad ius naturale attinet, omnes homines aequales sunt” (Ulp. 43 ad Sab. D. 50.17.32), cioè “[...] per quanto attiene al diritto naturale, tutti gli uomini sono uguali” (v. anche Ulp. 1 inst. D. 1.1.4).
La nota distinzione vichiana tra certo e vero (v. G. Vico, Principj di scienza nuova, Libro primo, Sezione seconda, IX e X), secondo cui gli “uomini che non sanno il vero delle cose proccurano [sic] d’attenersi al certo” (Giambattista Vico, La scienza nuova, giusta l'edizione del 1744, Parte prima, a cura di Fausto Nicolini, Gius. Laterza & figli, Bari 1911, p. 119), si può applicare anche alle differenze tra diritto positivo umano (fondato sull'“equità civile”: v. ivi, CX e CXI) e diritto naturale (fondato sull'“equità naturale”: v. ivi, CXIV), come indicano la “Degnità” CXI: “Il certo delle leggi è un’oscurezza della ragione unicamente sostenuta dall’autorità”, e la definizione CXIII: “Il vero delle leggi è un certo lume e splendore di che ne illumina la ragion naturale” (Giambattista Vico, op. cit., pp. 168-169).
In questi ultimi anni, in cui il senso di giustizia si è profondamente corrotto e il popolo si fa sedurre da demagoghi/e privi/e di moralità e umanità, l'appello ai princìpi del diritto naturale (che la ragione da sola può, seppur faticosamente, scoprire e riconoscere, anche nell'eventualità in cui Dio non esistesse o non si curasse degli affari umani: cfr. Hugonis Grotii [Ugo Grozio], De iure belli ac pacis libri tres, “Prolegomena” [11, nelle edizioni più recenti con i capoversi numerati], apud Nicolaum Buon, Parisiis 1625, s.i.p.) costituisce un forte richiamo alla razionalità, prima ancora che alla volontà divina (nel pensiero tomista, la perfetta corrispondenza in Dio tra volontà e ragione fa sì che Egli possa volere solo ciò che è razionale), e al limite di ragione che bisogna porre all'arbitrio dei potenti, perché alla mutevole sovranità degli esseri umani e delle loro leggi contrappone l'immutabile sovranità della legge naturale e rappresenta un baluardo contro le suggestioni dei relativisti radicali, i quali, desiderosi di affrancarsi da ogni freno morale e giuridico, predicano da secoli, in modo ripetitivo (quasi fossero affetti da psittacismo), che è impossibile individuare delle azioni che siano “bona” o “mala in se” (“beni” o “mali in sé”, riconoscibili come tali da ogni retta ragione), ma solo “mala quia prohibita” (cioè atti che sono considerati “mali”, nel senso di illeciti, solo “perché proibiti” e che quindi non sono proibiti e puniti perché “mali in sé”, ossia intrinsecamente “cattivi”, portatori di un intenso disvalore), e si perdono nelle contraddizioni dei loro sofismi. In verità, a giudizio di diversi antropologi e criminologi (tra cui Edward Adamson Hoebel e Maurice Cusson), esistono comportamenti che, salvo qualche rara eccezione, sono stati sempre percepiti e giudicati come negativi in tutte le comunità umane: ad esempio, il furto e l'omicidio ai danni di un membro del proprio gruppo sociale.
Tradizionalmente, nella teologia morale, è considerata retta la coscienza che riconosce, “secundum veritatem” (“secondo verità”), la qualità morale di un atto concreto, la coscienza “che detta una cosa vera” (v. Goffredo di Fontaines, Quodlibet, XII, q. 2; Giuseppe Frassinetti, op. cit., p. 7; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1778 e 1780).
Nell'ambito del giusnaturalismo (cioè delle dottrine che affermano l'esistenza del diritto naturale), i confini e i contenuti del diritto naturale sono da millenni oggetto di un vivace e intenso dibattito, che appare sensibilmente condizionato dalle ideologie e dalle convinzioni personali degli studiosi.
Alcuni critici del giusnaturalismo, basandosi sulla c.d. “legge di Hume”, sostengono erroneamente che, poiché non è possibile dedurre conclusioni prescrittive da premesse descrittive, il diritto naturale si fonderebbe solo su delle “convenzioni”, come quella di considerare giusto tutto ciò che accade in natura, non comprendendo che il diritto naturale descritto sopra non scaturisce dalla semplice osservazione e interpretazione della natura, ma dalla “ratio”, dalla “ragione” (v. S. Th., I-II, q. 91, a. 6, co.; I-II, q. 94, a. 1, co.), che, per s. Tommaso, “prende il nome dalla ricerca e dal processo discorsivo”: “nomen autem rationis [sumitur] ab inquisitione et discursu” (S. Th., II-II, q. 49, a. 5, ad 3).
In contrasto con la dottrina della “doppia verità” (in linea di massima, la verità della ragione filosofica e quella della fede religiosa), la Chiesa Cattolica ha stabilito che fede e ragione non possono mai essere in contrasto fra loro: infatti, poiché il medesimo Dio che rivela i misteri e infonde la fede, ha infuso anche il lume di ragione nell'animo umano, Egli non può negare se stesso, né la verità può mai contraddire la verità (v. Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. “Dei Filius” de fide catholica: DS 3017-3019; cfr. Conc. Ecum. Lateran. V, Bulla “Apostolici regiminis”: DS 1441).
La violazione sistematica dei diritti umani, un tempo occultata, oggi viene sempre più sbandierata come fonte di consenso politico-elettorale, determinando così un pervertimento del senso morale dei cittadini, in cui si inocula – in nome dell'egoismo individuale o di gruppo e dell'affermazione della propria identità contro quelle altrui – il veleno della disumanità e della cattiveria, due sentimenti negativi di cui non ci si vergogna nemmeno più e che attualmente, proprio perché assecondati e alimentati a livello istituzionale, diventano sempre più contagiosi, fino a essere considerati da molte persone normali e accettabili, in quanto sono spesso le istituzioni stesse a legittimarli, ostentando immoralità e indifferenza verso i deboli e i sofferenti, svalutando la giustizia e la solidarietà sociali, che sono coessenziali a qualsiasi sistema democratico, e indebolendo o riducendo i diritti dei semplici cittadini (v., ad esempio, l'abrogazione dell'art. 323 Cod. Pen. it., che puniva l'abuso d'ufficio).
Torna con amarezza alla mente quanto Lev Nikolaevič Tolstoj scrive in Resurrezione: “[…] di tutti gli uomini che vivevano in libertà, tramite il tribunale e l’amministrazione si sceglievano i più nervosi, passionali, eccitabili, dotati e forti, e i meno furbi e prudenti, e costoro, nient’affatto più colpevoli o pericolosi per la società degli altri che restavano in libertà, venivano in primo luogo rinchiusi in carceri, stazioni di tappa, bagni penali, dove venivano tenuti per mesi e anni in ozio assoluto, senza preoccupazioni materiali e lontano dalla natura, dalla famiglia, dal lavoro, cioè al di fuori di tutte le condizioni di una vita naturale e morale. Questo in primo luogo. In secondo luogo in questi istituti erano sottoposti a ogni genere di umiliazioni inutili: catene, teste rasate, divisa infamante, venivano cioè privati di quello che per i deboli è lo stimolo principale a una vita onesta: l’opinione della gente, la vergogna, la coscienza della dignità umana. In terzo luogo, essendo esposti a un continuo pericolo di vita per le malattie contagiose endemiche nei luoghi di reclusione, lo sfinimento, le percosse (senza parlare dei casi eccezionali di insolazione, annegamento, incendio), essi si trovavano costantemente in una situazione in cui il migliore, il più morale degli uomini per istinto di sopravvivenza commette e giustifica negli altri gli atti più atroci e crudeli. In quarto luogo erano forzatamente riuniti a depravati, assassini e malfattori eccezionalmente corrotti dalla vita (e in particolare da quelle stesse istituzioni), che agivano come il lievito nella pasta su tutti coloro che i mezzi impiegati non avevano ancora completamente corrotto. E in quinto luogo, infine, in tutte le persone soggette a queste azioni si inculcava nel modo più convincente, e cioè per mezzo di ogni genere di atti disumani perpetrati su di loro, come la tortura dei bambini, delle donne, dei vecchi, le percosse, la fustigazione con le verghe e con le fruste, la ricompensa per chi consegnava vivo o morto un ricercato, la separazione dei mariti dalle mogli e la convivenza forzata con mogli e mariti altrui, la fucilazione, l’impiccagione – s’inculcava nel modo più convincente l’idea che qualsiasi violenza, crudeltà, atrocità non solo non è proibita, anzi è autorizzata dal governo, quando gli torni utile, e perciò è tanto più lecita per chi si trova in prigionia, nell’indigenza e nella sventura” (Lev Nikolaevič Tolstoj, Resurrezione, trad. it. di E. Guercetti, XV edizione, Garzanti, Milano 2015, pp. 441-442).
Il fine non giustifica mai i mezzi: quindi non è mai moralmente lecito fare il male in vista del bene proprio o altrui che ne potrebbe derivare (v. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1753, 1756, 1761 e 1789): è pertanto auspicabile – dal punto di vista etico – riconsiderare nel suo complesso il sistema penale, che ancor oggi rende possibili immani ingiustizie e crudeltà.
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G. G. Savoldo, Santi eremiti Antonio e Paolo. |
Calunnie e false accuse
Sebbene rappresenti sicuramente un notevole progresso civile il fatto che sia divenuta di dominio pubblico la piaga dei numerosi abusi sessuali commessi nel mondo da sacerdoti e consacrati/e, bisogna anche considerare che questo continuo vociferare di scandali sessuali nella Chiesa favorisce l'insorgere, un tempo molto più contenuto, di false accuse di tal genere contro le suddette persone.
Le accuse di abusi sessuali contro i presbiteri e i membri di istituti di vita consacrata sono talvolta divulgate non per tutelare le vittime o per amore della verità (siamo rimasti in pochi ad amarla), ma per attaccare e screditare il cristianesimo e la Chiesa Cattolica (che in questi ultimi anni, a causa del crescente asservimento al mondo, soffre di un preoccupante smarrimento etico) in particolare.
Purtroppo, a differenza di quanto accadde a Macario l'Egiziano con la giovane incinta, nei casi di calunnia contro religiosi che ho potuto analizzare approfonditamente, non ho notato nessun intervento soprannaturale a tutela degli indagati e della verità: alcuni presbiteri hanno dovuto patire ingiustamente e a lungo per crimini non commessi.
Nella teologia morale cattolica vengono denominate calunnie (v. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2477 e 2479) anche quelle condotte che nel diritto penale italiano integrano la fattispecie tipica (quella, per intenderci, in cui si trovano descritti gli elementi costitutivi dei reati previsti dalle norme penali) del delitto di diffamazione (art. 595 Cod. Pen. it., collocato nel Capo che riguarda i Delitti contro l'onore) – limitatamente ai casi in cui l'offesa all'altrui reputazione consista nell'attribuzione di fatti non veri (tenete presente che questo reato può configurarsi anche in altri casi) – e non quella del delitto di calunnia (art. 368 Cod. Pen. it., inserito nel Capo concernente i Delitti contro l'attività giudiziaria). Poiché ho notato che non di rado nelle cause per diffamazione viene invocata, talora sulla base di motivazioni meramente strumentali, l'applicazione della scriminante ex art. 51, co. 1 Cod. Pen. it., mi pare utile farvi sapere, in modo molto semplice e succinto, che, sebbene sia indubbio che anche la diffamazione (compresa quella a mezzo stampa) costituisca una forma di manifestazione del pensiero e che il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero sia riconosciuto dall'art. 21, co. 1 della Costituzione della Repubblica Italiana, è errato dedurre da ciò che tale diritto, in quanto costituzionalmente riconosciuto, sia anche illimitato, perché esso deve essere necessariamente limitato dall'esigenza di tutelare altri interessi di pari o maggiore rilevanza costituzionale, come quello, ad esempio, di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo (v. art. 2 Cost. it.), di cui fa parte il diritto alla reputazione: pertanto la limitazione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, imposta dall'art. 595 Cod. Pen. it., è da ritenersi pienamente giustificata e la suddetta scriminante deve essere applicata entro i limiti ricavabili dall'ordinamento giuridico, limiti evidenziati da numerose sentenze della Corte di Cassazione (alle quali rimando chi volesse approfondire l'argomento).
Occorre molta prudenza nel valutare i diversi casi di specie, evitando sempre di farsi influenzare dalle generalizzazioni, dai luoghi comuni e dalle simpatie e antipatie – sessuali o ideologiche – e tenendo ben presente che le denunce calunniose sono spesso usate in modo strumentale, per i più vari motivi, da persone che vogliono aggredire (o comunque ottenere dei vantaggi) interpretando la parte delle vittime.
Nei casi in cui le persone considerate offese dai reati (non necessariamente di natura sessuale) siano donne o minori, l'indagato o imputato maschio viene facilmente stigmatizzato quale “presunto colpevole” sulla base di una semplice accusa o di un sospetto efficacemente divulgato (può risultare per lui molto difficile provare la sua innocenza, soprattutto di fronte all'opinione pubblica: non fate nessun affidamento sul proverbio “male non fare, paura non avere”), in spregio del divieto di presunzione di colpevolezza (di fatto, in molti casi, si assiste a un'antigiuridica inversione dell'onere della prova, come se sussistesse un'inesistente presunzione relativa, o iuris tantum, della legge, anziché una presunzione semplice, o hominis, del giudice) sancito dall'art. 27, co. 2 della Costituzione della Repubblica Italiana e dall'art. 48, § 1 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, corrispondente all'art. 6, § 2 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali; il 14 dicembre 2021 è entrato in vigore il Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188, contenente “Disposizioni [...] sul
rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del
diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali” (v. Supplemento ordinario n. 40/L alla Gazzetta Ufficiale, Serie generale - n. 284 del 29-11-2021), grazie al quale la Direttiva 2016/343/UE del 9 marzo 2016 è stata recepita dal legislatore italiano, seppur con notevole ritardo (qualche
anno prima i Governi di alcuni Stati membri dell'UE si erano permessi di
dichiarare ipocritamente che gli ordinamenti interni erano già conformi
al minimum richiesto da essa). Le false accuse di violenza sessuale contro soggetti di genere maschile sono subito credute vere da molte persone anche perché, nell'immaginario collettivo, i maschi sono considerati in genere come libidinosi per natura e costituiscono oggetti abituali della pulsione aggressiva: lo stereotipo è così forte che chi dimostra di non essere così, corre il rischio di essere etichettato falsamente come “invertito” o peggio. In situazioni di rischio è meglio evitare (anche se ciò non preclude le calunnie) di relazionarsi con minori o donne, le quali, a differenza dei maschi, sono intensamente tutelate e supportate, a prescindere dalla ragione o dal torto. Gran parte dei maschi solidarizza scelleratamente con le femmine, anche se fanno il male, anziché con gli altri maschi, e non si mette mai contro le donne: c'è anche chi arriva a uccidere per ottenere i favori di qualche donna e chi, avendo il potere di farlo, preferisce procedere contro un maschio che sa innocente piuttosto che imputare una donna per calunnia. Di solito non ci si fa scrupoli a colpire un maschio. Anche i maschi eterosessuali falsamente stigmatizzati come omosessuali presentano un apprezzabile aumento dei rischi di
essere vittime di reati contro la vita e l'incolumità personale e di violenze sessuali: è capitato che alcuni di questi siano stati addirittura intenzionalmente
contagiati con il virus HIV mediante violenze contro natura o in altro
modo, per disonorarli ingiustamente e farli morire. Storicamente persino persone esperte, dotate di una solida preparazione e di una ferrea moralità, sono state irrimediabilmente incastrate mediante trappole sessuali appositamente congeniate per loro, a cui magari in alcuni casi sono riusciti in qualche modo a sottrarsi, ma apparendo ai più comunque colpevoli. Chi ha la fortuna di vedere la propria innocenza riconosciuta dall'Autorità Giudiziaria può ritrovarsi, ciononostante, con la reputazione irrimediabilmente compromessa e diventare oggetto di una pesante persecuzione: de iure condendo, oggi più che mai è necessario promulgare efficaci provvedimenti legislativi volti a tutelare i maschi vittime di false accuse, compensando gli svantaggi connessi con l'appartenenza al genere maschile, ma ci si preoccupa quasi esclusivamente per le donne.
Sulla scorta di artefatti stereotipi di genere e di una prospettazione distorta della realtà, spesso di parte, si preferisce considerare i maschi adulti (che sono trattati decisamente peggio delle femmine, le quali esercitano una fortissima influenza su di loro) sempre come aggressori, anziché come vittime, nonostante anche la popolazione maschile sia vittima di gravi reati, molto più di quanto venga divulgato dai mezzi di comunicazione: v. il Post Due errori logici molto comuni e altri limiti mentali. Sfortunatamente è abbastanza semplice criminalizzare un maschio e indirizzargli contro l'aggressività di molte persone, in particolar modo quando ad accusarlo falsamente è un soggetto di genere femminile, a cui di solito si crede con eccessiva facilità: le conseguenze possono essere mortali. Quando una calunnia viene divulgata, è probabile che alcune persone, venute a conoscenza di essa, inventino delle storie conformi alla calunnia iniziale (qualche volta addirittura senza nemmeno conoscere personalmente il calunniato), rafforzando la verosimiglianza della calunnia iniziale, e che altre fingano di credere alla calunnia, allo scopo di procurarsi un pretesto per screditare e aggredire la vittima, o attribuiscano, senza alcun fondamento, al calunniato la responsabilità di atti riprovevoli, commessi da ignoti, analoghi a quelli descritti nella calunnia. I maschi accusati falsamente di violenza sessuale (compresi quelli indicati ingiustamente come pedofili: purtroppo le donne pedofile non sono quasi mai perseguite, anche se causano ai bambini più danni psicologici dei maschi), e poi risultati innocenti, in molti Paesi sono inseriti in cosiddette “liste nere”, da alcuni criminologi denominate anche “liste di notifica”, con la conseguenza di subire un controllo della loro vita fortemente pervasivo e un feroce stalking organizzato: è possibile che qualcuno tenti di assassinarli e che vengano compiuti dei veri e propri linciaggi contro di loro. Possono finire in queste liste anche i dissidenti, gli agitatori, i divulgatori di verità scomode, i cittadini molto onesti che non si piegano al “sistema”, le persone etichettate come mentalmente instabili, ecc.; so per certo che diversi soggetti sono stati inseriti in esse a causa della malevolenza di alcune donne, da cui erano stati calunniati, dopo che avevano avuto un acceso diverbio con loro per futili motivi o dopo che erano divenuti vittime della loro invidia, della loro gelosia o semplicemente del loro astio. Esistono soggetti di entrambi i generi che diffondono calunnie semplicemente per il gusto sadico e perverso di fare del male a qualcuno senza esporsi più di tanto e altri che infieriscono contro gli innocenti vittime di calunnie per sfogare la loro aggressività contro capri espiatori impossibilitati a difendersi. Un settore considerevole dell'opinione pubblica pubblica vorrebbe che le notizie delle false violenze non venissero divulgate e che tutte le accuse di abusi fossero ritenute vere a priori, prescindendo da ogni verifica, principalmente perché le false accuse costituiscono un'arma potentissima nelle mani delle donne e di tutti coloro che vogliono aggredire degli innocenti. È più facile di quanto generalmente si pensi costruire prove false (in specie testimoniali, oltre a foto- e videomontaggi o all'utilizzo di soggetti molto somiglianti che sostituiscono la propria persona a quella del diffamato/calunniato) per rovinare qualcuno. Può capitare a volte che le prove a discarico degli indagati e degli imputati siano distrutte o sottovalutate o deliberatamente ignorate e si cerchi con pervicacia solo ciò che sembri confermare le accuse. I maschi che professano la loro innocenza in merito ad accuse così infamanti, anche se realmente innocenti, in genere non sono creduti: interrogatori particolarmente vessatori e sfibranti, condotti al di fuori delle regole – o torture vere e proprie – e lo shock causato dalla custodia cautelare in carcere possono indurli a confessare ciò che non hanno mai commesso. L'abbinamento di particolari sostanze psicoattive a mirati stimoli psicologici è sufficiente per costringere le persone ad affermare qualsiasi cosa. In qualche caso può succedere che sia verbalizzato il falso a danno degli indagati. Durante la mia attività di ricerca sono venuto a conoscenza di un numero spaventosamente grande di false accuse, la maggior parte delle quali ha raggiunto lo scopo: fare del male all'accusato.
Mi
causa una certa pena dover ribadire di sovente agli
sprovveduti, sebbene si tratti di una verità lapalissiana, che le
perizie di psicologi e psichiatri (o di altri periti e consulenti
tecnici) e le argomentazioni dei giudici non sono ovviamente infallibili, anzi difficilmente sono esenti da ogni errore: vi confesso che, nonostante anni di assidue ricerche, rimango ancora sconcertato di fronte alle interpretazioni completamente assurde che mi capita di leggere in varie perizie e in alcune motivazioni di provvedimenti giurisdizionali. Non solo si possono verificare fraintendimenti, ma è altresì possibile che i periti nominati dall'Autorità Giudiziaria forniscano pareri o interpretazioni intenzionalmente mendaci o affermino fatti non conformi al vero (cfr. art. 373 Cod. Pen. it.).
La gente comune non ha idea di quanti uomini innocenti, accusati falsamente, abbiano assistito, dentro o fuori le mura del carcere, alla straziante distruzione delle loro esistenze, per motivi legati alle calunnie subite.
“Che l’educazione odierna nasconda al giovanetto
l’importanza che avrà nella sua vita la sessualità non è l’unico rimprovero che
si deve rivolgerle. Essa pecca anche nel non prepararlo alle aggressioni
di cui è destinato a diventare l’oggetto.
Introducendo la gioventù nella vita con un orientamento psicologico così
sbagliato, [...] si lascia credere al giovanetto che tutti gli altri
attuino i precetti etici, siano cioè virtuosi. Su ciò si fonda l’esigenza che anche lui diventi tale” (Sigmund Freud, op. cit., nota 1, p. 267). Attualmente le relazioni nei confronti dei maschi, sia da parte di altri maschi sia da parte di femmine, sono improntate a un'aggressività, a una ferocia e a un sadismo eccessivi.
Ciò non toglie che anche un chierico, se risulta colpevole al di là ogni ragionevole dubbio, debba essere condannato come previsto dall'ordinamento giuridico, senza alcuna forma di illecito favoritismo.
In alcuni casi può rivelarsi assai difficile ottenere giustizia e far condannare persone realmente colpevoli. Bisogna
impiegare molta perseveranza e spirito di sacrificio nel chiedere la
repressione e la punizione dei comportamenti criminali posti in essere da soggetti che dispongono di un qualche potere e che sono considerati integerrimi e insospettabili dalla maggioranza: quasi mai costoro ammettono i loro crimini, così come le calunniatrici e i calunniatori si adoperano in ogni modo affinché le loro calunnie non siano scoperte, per non perdere la buona reputazione e subire eventuali sanzioni. Molte persone sono presunte oneste solo perché nessuno ha mai denunciato pubblicamente i loro crimini. Si assiste a questo paradossale fenomeno: abusatori e abusatrici seriali considerati irreprensibili perché nessuno li ha mai smascherati e soggetti assolutamente non abusanti ritenuti colpevoli di abusi solo perché qualcuno o qualcuna li ha calunniati.
Non esiste nessuna categoria di persone i cui membri non possano commettere qualche reato e chiunque può essere calunniato.
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