“The imminent return of the Lord Jesus”

† “The imminent return of the Lord Jesus” † The Blog deals with the Parousia announced as imminent in the New Testament but never occurred, other missed prophecies and more... The great Christian Promise has not been kept. The “truth” about Jesus and Christianity. This is a religious website.

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29 ottobre 2024

La vittoria di Antigone † Antigone’s Victory

 

                        Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini»(At 5, 29. Bibbia CEI 2008).

 

   “Non pensavo che i tuoi ordini avessero così tanta forza da obbligare un mortale a trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dèi, che non sono di oggi o di ieri, ma vivono da sempre, e nessuno sa quando siano apparse” (Sofocle, Antigone, vv. 453-457, trad. mia). 

 

Antoni Brodowski, Edipo e Antigone
Antoni Brodowski, Edipo e Antigone.

Per esaudire il desiderio di una signora che mi ha chiesto qualche ragguaglio e la mia opinione sul richiamo alle leggi non scritte di origine divina, attribuito al mitico personaggio di Antigone nell'omonima tragedia di Sofocle, vi scrivo in merito, nel modo più semplice possibile, qualche cenno, che spero sia atto a soddisfare la curiosità della signora e a stimolare la riflessione dei lettori.

Il testo greco da me utilizzato nelle citazioni è quello a cura di Francis Storr in Sophocles, Vol. 1: Oedipus the King, Oedipus at Colonus, Antigone, The Loeb Classical Library, 20, William Heinemann, London-New York 1912; tutte le traduzioni dal greco antico in italiano sono mie.

L'appello della “pia” Antigone, figlia di Edipo, alle “leggi non scritte e incrollabili degli dèi” (“ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν νόμιμα”, leggiamo ai vv. 454-455 del testo greco di questa tragedia) ― Antigone afferma che non pensava che i bandi del sovrano Creonte avessero così tanta forza da costringere un mortale a trasgredirle ― fa riferimento a un sistema di norme immutabile ed eterno che scaturisce dalla volontà divina (nei vv. 456-457 leggiamo: “οὐ γάρ τι νῦν γε κἀχθές, ἀλλ᾽ ἀεί ποτε / ζῇ ταῦτα, κοὐδεὶς οἶδεν ἐξ ὅτου ᾽φάνη”, che significa: “Infatti queste non sono di oggi o di ieri, ma vivono da sempre, e nessuno sa quando siano apparse”), ovvero a un diritto di origine divina (non fondato quindi su una volontà e una razionalità meramente umane), che fa parte di un ordine superiore a quello del diritto posto dai mortali (che oggi denominiamo “diritto positivo”), rappresentato, in questa tragedia, dal “bando” (“κήρυγμα” in greco) dello zio Creonte (era zio di Antigone in quanto fratello di Giocasta, madre e moglie di Edipo), re di Tebe, che aveva ordinato di non dare sepoltura al cadavere del fratello di Antigone, Polinice (anch'egli figlio di Edipo e Giocasta e nipote di Creonte), colpevole di aver attaccato, con l'aiuto degli alleati argivi, la città di Tebe, da cui era stato esiliato ad opera del fratello Eteocle, che, concluso il suo anno di regno, si era rifiutato di cedergli il trono, violando il patto secondo cui i due fratelli avrebbero regnato alternativamente un anno ciascuno.

Presso una delle sette porte di Tebe, Eteocle aveva ucciso Polinice, venendo ucciso a sua volta dal fratello, durante un duello ingaggiato per stabilire a chi spettasse la successione al trono: si era così adempiuta la profezia racchiusa nelle maledizioni del loro padre Edipo.

Dopo la morte dei due fratelli, Creonte, assunta la reggenza di Tebe, sconfisse definitivamente i nemici e ordinò che Eteocle, poiché aveva combattuto per la città, fosse posto in un sepolcro, con tutti i riti che accompagnano sotto terra gli eroi, e che Polinice, invece,  tornato dall'esilio per mettere a ferro e fuoco la patria, fosse lasciato insepolto e sfigurato, in balia di uccelli e cani, con la proibizione che alcuno gli tributasse esequie e lamenti.

Antigone decide di violare quest'ultimo ordine di Creonte e, avvicinatasi al cadavere di Polinice, prorompe in acuti gemiti, lo ricopre con polvere densa e offre in suo onore una triplice libagione, servendosi di una bella brocca di bronzo levigato. Scoperta dalle guardie poste da Creonte, viene arrestata e condotta al suo cospetto, dove intesse con lui l'altissimo dialogo in cui gli parla delle citate “leggi non scritte e incrollabili degli dèi”.

Il tema delle superiori leggi divine è accennato da Sofocle anche nell'Edipo Re, in cui il Coro canta le “leggi eccelse, partorite attraverso l'etere celeste e il cui unico padre è l'Olimpo, che non sono state generate da natura mortale di uomini e che mai l'oblio sopirà; un grande dio è in esse e non invecchia” (nei vv. 865-871 del testo greco che vi ho tradotto sopra, si legge: “ὧν νόμοι πρόκεινται / ὑψίποδες, οὐρανίαν / δι᾽ αἰθέρα τεκνωθέντες, ὧν Ὄλυμπος / πατὴρ μόνος, οὐδέ νιν / θνατὰ φύσις ἀνέρων / ἔτικτεν οὐδὲ μή ποτε λάθα κατακοιμάσῃ· / μέγας ἐν τούτοις θεὸς οὐδὲ γηράσκει”).

Fin dall'antichità (la prima rappresentazione di questa tragedia risale alla metà circa del V secolo a.C.), moltissimi lettori e spettatori hanno creduto di ravvisare, nelle parole che Sofocle (ai citati vv. 454-457) fa pronunciare ad Antigone, un'espressione dell'eterno conflitto tra la legge divina e la legge umana, tra la legge morale (naturale e/o rivelata) e la legge della Stato, tra l'autorità politica e la coscienza etica, tra il diritto naturale e il diritto positivo umano, anche se Antigone fa riferimento al diritto divino e non al diritto naturale eminentemente razionale, quale si è venuto delineando soprattutto a partire dall'età moderna (v., nel Post Un monaco calunniato: san Macario il Grande – La legge naturale, il paragrafo intitolato “La legge naturale).

Badate che Creonte, vietando di dare sepoltura a Polinice, non fa l'interesse della polis, ma commette un arbitrio, una violenza, un abuso (vv. 1064-1090), cioè uno di quegl'atti in cui si manifesta l'“ὕβρις” (hybris) umana; significativamente Antigone dichiara: “Infatti non è stato Zeus a bandire per me questo editto e la Giustizia, che dimora con gli dèi sotterranei, non ha mai stabilito per gli uomini leggi simili” (vv. 450-452). Per questo l'indovino Tiresia rimprovera aspramente Creonte e vaticina che il suo comportamento empio arrecherà gravi danni a Tebe, divenuta impura per colpa sua (vv. 998-1032). Nel corso di un serrato dialogo con il Coro, Creonte, preso da timore, manifesta segni di cedimento e, alla fine, acconsente a far seppellire Polinice e a liberare troppo tardi ormai, come egli stesso scoprirà ― Antigone (vv. 1091-1114).

Nell'esodo della tragedia, Creonte (che, violando le leggi divine, ha provocato la morte della nipote Antigone, del figlio Emone e della moglie Euridice), in preda al rimorso e alla disperazione, arriva a compiangere se stesso (vv. 1317-1346); il Coro chiude la tragedia rammentando che la saggezza è di gran lunga il primo fattore di felicitàe che non si deve assolutamente essere empi verso gli dèi: i grandi discorsi dei superbi sono ripagati con grandi castighi, anche se insegnano, nella vecchiaia, a essere saggi(vv. 1347-1353).

Mentre il decreto di Creonte s'ispira al desiderio di vendetta e a una logica puramente umana (punire con l'insepoltura chi ha aggredito la patria), la volontà di Antigone di seppellire Polinice è, invece, conforme alle usanze volute dagli dèi (ovverosia alla pietà che si deve a loro e ai mortali) e alla ragione naturale: dopo aver annunciato alla sorella Ismene l'intenzione di seppellire il fratello, nonostante il divieto del re, Antigone, al v. 89, pronuncia queste parole: “ἀλλ᾽ οἶδ᾽ ἀρέσκουσ᾽ οἷς μάλισθ᾽ ἁδεῖν με χρή, cioè: “Ma so di essere gradita a coloro a cui innanzitutto è necessario che io sia gradita”.

Infatti la sepoltura dei morti è da sempre praticata presso tutte le culture: ad esempio, nell'Antico Testamento troviamo scritto che l'ebreo Tobi, contravvenendo agli ordini del re assiro Sennacherib e del suo successore Esarhaddon, seppelliva nottetempo i cadaveri degli ebrei uccisi che aveva nascosto nella propria casa, perché temeva più Dio che i re assiri, benché, per una di queste azioni, lo avessero già ricercato allo scopo di ucciderlo (v. Tb 2, 3-9).

Non a caso Aristotele, nella Retorica, cita i vv. 456-457 dell'Antigone sofoclea, dopo aver spiegato che esiste un concetto comune di giusto e ingiusto per natura:

λέγω δὲ νόμον τὸν μὲν ἴδιον, τὸν δὲ κοινόν, ἴδιον μὲν τὸν ἑκάστοις ὡρισμένον πρὸς αὑτούς, καὶ τοῦτον τὸν μὲν ἄγραφον, τὸν δὲ γεγραμμένον, κοινὸν δὲ τὸν κατὰ φύσιν. ἔστι γάρ τι ὃ μαντεύονται πάντες, φύσει κοινὸν δίκαιον καὶ ἄδικον, κἂν μηδεμία κοινωνία πρὸς ἀλλήλους ᾖ μηδὲ συνθήκη, οἷον καὶ ἡ Σοφοκλέους Ἀντιγόνη φαίνεται λέγουσα, ὅτι δίκαιον ἀπειρημένου θάψαι τὸν Πολυνείκη, ὡς φύσει ὂν τοῦτο δίκαιον·

οὐ γάρ τι νῦν γε κἀχθές, ἀλλ ἀεί ποτε
ζῇ τοῦτο, κοὐδεὶς οἶδεν ἐξ ὅτου φάνη·(Aristotele, Retorica, I, 13, 2, 4-13: 1373b, secondo l'edizione critica di William David Ross, pubblicata a Oxford nel 1959 da Clarendon Press),

che significa:

“Chiamo legge tanto quella particolare quanto quella comune: con legge particolare intendo quella che ogni popolo ha stabilito per se stesso, ed essa può essere scritta o non scritta; con legge comune quella secondo natura. Infatti esiste un concetto comune di giusto e ingiusto secondo natura, di cui tutti hanno una sorta di predizione, anche qualora non vi sia alcuna comunanza reciproca né accordo, così come l'Antigone di Sofocle sembra dire che è giusto seppellire Polinice, anche se è vietato, dato che ciò è giusto per natura: 

Infatti non da oggi o da ieri, ma da sempre
vive questa legge [nel passo di Aristotele cit. leggiamo il singolare “τοῦτο”, anziché il plurale “ταῦτα; cfr. però 1375b. Nota mia], e nessuno sa da quando sia apparsa” (trad. mia).

Sebbene Antigone, Creonte e gli altri personaggi che ho nominato sopra siano immaginari, probabilmente mai esistiti, capaci di azioni e reazioni talora paradossali ed eccessive, pur tuttavia essi ci stimolano a un'indagine sull'essenza e l'origine del diritto naturale, un'indagine che, se ben condotta a livello psicologico, ci porterà a intuire chi siamo e da dove veniamo: esplorando il senso del bene e del male che troviamo nella nostra coscienza grazie alla ragione, possiamo intravedere il fondamento della nostra moralità e quindi della nostra natura umana.

Vengono spontanee alla mente le parole di Immanuel Kant:

Zwei Dinge erfüllen das Gemüt mit immer neuer und zunehmender Bewunderung und Ehrfurcht, je öfter und anhaltender sich das Nachdenken damit beschäftigt: der bestirnte Himmel über mir und das moralische Gesetz in mir” (Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, Introduzione, traduzione, note e apparati di Vittorio Mathieu, Rusconi, Milano 1993, p. 318),

che significano:

“Due cose riempiono l'animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” (trad. it. di V. Mathieu, ivi, p. 319).

Dobbiamo, comunque, mantenere un sano e sobrio realismo, come ci indica lo stesso Kant:

In unseren Zeiten, wo man mehr mit schmelzenden, weichherzigen Gefühlen oder hochfliegenden, aufblähenden und das Herz eher welk als stark machenden Anmaßungen über das Gemüt mehr auszurichten hofft, als durch die der menschlichen Unvollkommenheit und dem Fortschritte im Guten angemessenere trockene und ernsthafte Vorstellung der Pflicht, ist die Hinweisung auf diese Methode nötiger als jemals. Kindern Handlungen als edle, großmütige, verdienstliche zum Muster aufzustellen in der Meinung, sie durch Einflößung eines Enthusiasmus für dieselben einzunehmen, ist vollends zweckwidrig. Denn da sie noch in der Beobachtung der gemeinsten Pflicht und selbst in der richtigen Beurteilung derselben soweit zurück sind, so heißt das soviel, als sie beizeiten zu Phantasten zu machen. Aber auch bei dem belehrteren und erfahreneren Teil der Menschen ist diese vermeinte Triebfeder, wo nicht von nachteiliger, wenigstens von keiner echten moralischen Wirkung aufs Herz, die man dadurch doch hat zuwege bringen wollen” (ivi, p. 308),

vale a dire:

“Ai tempi nostri, in cui si spera di far presa sull'animo con sentimenti struggenti che inteneriscono il cuore, o con pretese altisonanti rigonfie che lo appassiscono in luogo di rafforzarlo, molto più che con una sobria e seria rappresentazione del dovere, che meglio si adegua all'imperfezione umana e ai progressi nella virtù, il suggerimento di quel metodo è più necessario che mai. Presentare ai ragazzi come modello azioni come nobili, magnanime e gloriose, nella credenza di conquistarli ispirando loro entusiasmo, manca in pieno lo scopo. Poiché, infatti, essi sono ancora così indietro nell'osservanza dei doveri più comuni, e anche nel retto giudizio su di essi, questo equivale, col tempo, a farne dei sognatori. Ma anche nella parte istruita ed esperta dell'umanità questi presunti moventi, quando non siano di danno, sono per lo meno del tutto incapaci di avere sul cuore quella genuina efficacia morale che, pure, si aveva di mira (trad. it. di V. Mathieu, ivi, p. 309).

 

Sébastien Norblin, Antigone e Polinice
Sébastien Norblin, Antigone e Polinice.

Sul personaggio di Antigone, molto celebrato nei secoli passati, sono stati versati fiumi d'inchiostro, anche per proporre letture controcorrente (spesso fantasiose e azzardate, se consideriamo con senso storico la visione del mondo sofoclea) della tragedia che la vede protagonista, a volte solo con l'intento di sembrare più acuti e originali di altri che avevano già scritto su di lei, sebbene l'interpretazione tradizionale del contrasto tra questa eroina e Creonte sia la più feconda: l'interpretazione, cioè, che in tale contrasto scorge con naturalezza la contrapposizione della forza del diritto insito nella coscienza umana al diritto della forza esercitato dal potere costituito, che può arrivare a violare le norme e i sentimenti più nobili e sacri.

Antigone, ottemperando all'interiore obbligazione morale di origine divina, riscatta e salva se stessa (cfr. vv. 458-468), pur nella sua tragica fine, nulla perdendo della sua alta dignità.

Antigone (come Gesù) ha vinto, e spero, per il bene dell'umanità, che continui a vincere negli incerti secoli che ci attendono.

 

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