“The imminent return of the Lord Jesus”

† “The imminent return of the Lord Jesus” † The Blog deals with the Parousia announced as imminent in the New Testament but never occurred, other missed prophecies and more... The great Christian Promise has not been kept. The “truth” about Jesus and Christianity. This is a religious website.

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Se il Papa è eretico: implicazioni canonistiche † If the Pope is a heretic: canonistic implications


Neppure i sacerdoti si domandarono:
Dovè il Signore?.
Gli esperti nella legge non mi hanno conosciuto,
i pastori si sono ribellati contro di me,
i profeti hanno profetato in nome di Baal
e hanno seguito idoli che non aiutano(Ger 2, 8. Bibbia CEI 2008).
 
 

Premetto che, su questa specifica materia (l'eresia del Romano Pontefice), nel silenzio della legge canonica (considerato altresì che non esistono leges” promulgate per disciplinare casi simili, applicabili analogicamente alla persona del Papa; che le leggi penali sono soggette a interpretazione stretta”, secondo quanto disposto dal can. 18 CIC 1983, e che, se la causa è penale, è vietato il ricorso all'analogia e agli altri strumenti del c.d. diritto suppletorio”, elencati nel successivo can. 19) e in assenza di giurisprudenza in merito, occorre fare riferimento (qualora si ravvisi, in relazione alla fattispecie dell'eresia papale, l'esistenza di una lacuna legis da colmare e, sicuramente, non per ipotetiche cause penali o di altro genere: v. il cit. can. 19 e il can. 1404), oltre alla normativa di carattere generale, ai generalibus iuris principiis cum aequitate canonica servatis(can. 19 CIC 1983), cioè ai princìpi generali del diritto applicati con equità canonica [quindi con quell'elasticità necessaria a riportare alla norma suprema (la salvezza delle anime”) tutte le altre norme, che vanno considerate determinazioni di essa e adattate alle esigenze e alle circostanze particolari del caso concreto: cfr. can. 1752; PL 162, 74 B; 1 Pt 1, 9. Nota mia]”, e alla dottrina, ovvero alla doctorum sententia” (cfr. can. 19), vale a dire al parere degli esperti”. Nella pratica del diritto, si denomina usualmente giurisprudenza l'insieme delle sentenze e delle altre decisioni emanate dagli organi giurisdizionali; si chiama invece dottrina il complesso degli apporti scientifici degli studiosi delle discipline giuridiche.

Secondo la dottrina prevalente, il Romano Pontefice, qualora incorresse in una o più eresie(1) manifeste e notorie (caso contemplato in dottrina da molti eminenti canonisti, tra cui Franz Xaver Wernz e Pedro Vidal), ipso facto (questa formula latina viene impiegata in relazione agli effetti giuridici che si producono in modo automatico e inevitabile al verificarsi di un certo fatto) decadrebbe dal suo ufficio e perderebbe ogni potestà, perché non svolgerebbe più la sua funzione di principio e fondamento visibile dell'unità della fede cattolica e della comunione ecclesiale (cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, nn. 18 e 22-23; Nota Explicativa Praevia alla Lumen gentium, n. 2; Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. Pastor aeternus de Ecclesia Christi, Prologus de institutione et fundamento Ecclesiae: DS 3051(2)): in buona sostanza, perderebbe il suo ufficio primaziale, non essendo più in comunione (cfr. cann. 209, § 1 e 333, § 2) innanzitutto con Cristo (cfr. Gal 1, 8-12 e Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 11, a. 1, co.) e quindi con gli altri vescovi e il resto della Chiesa universale (v. can. 205), atteso che, come Pietro e gli altri Apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico Collegio, così, per analoga ragione e quindi per diritto divino (che è inviolabile e inderogabile), il Romano Pontefice e i vescovi devono essere tra loro congiunti, come sancito dal canone 330 del Codice di Diritto Canonico (CIC) entrato in vigore nel 1983:

Sicut, statuente Domino, sanctus Petrus et ceteri Apostoli unum Collegium constituunt, pari ratione Romanus Pontifex, successor Petri, et Episcopi, successores Apostolorum, inter se coniunguntur” (can. 330 CIC 1983; cfr. Lumen gentium, n. 22a)

e dal canone 333, § 2:

Romanus Pontifex, in munere supremi Ecclesiae Pastoris explendo, communione cum ceteris Episcopis immo et universa Ecclesia semper est coniunctus; ipsi ius tamen est, iuxta Ecclesiae necessitates, determinare modum, sive personalem sive collegialem, huius muneris exercendi” (can. 333, § 2 CIC 1983; cfr. Lumen gentium, n. 22 e Nota Explicativa Praevia alla Lumen gentium, n. 3).
 

Papa Onorio I (immagine di fantasia)
Papa Onorio I (immagine di fantasia).

Pur essendo inconfutabilmente vero che il Romano Pontefice (il quale per diritto divino ― si tratta di un dogma della Chiesa Cattolica gode del primato di giurisdizione(3), cioè di una potestà suprema di governo, superiore a ogni altro potere ecclesiastico: v. Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3055 ss.; Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, n. 18 e can. 331) può sempre esercitare liberamente la sua potestà ordinaria(4) suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che per missio divina riceve direttamente da Cristo (al momento della sua accettazione della legittima elezione), in quanto successore di Pietro, e non dai Cardinali elettori (che designano la persona, ma non le conferiscono tale potestà) o dal Collegio dei vescovi, che egli presiede (v. cann. 331; 332, § 1 e cfr. Nota Explicativa Praevia alla Lumen gentium, n. 1), non dimentichiamo che deve esercitarla entro i limiti del ius divinum, sive naturale sive positivum” (per usare una celebre espressione risalente al pensiero di Francisco Suárez), cioè del “diritto divino, sia naturale(5) sia positivo(6)” (la menzionata triade suaresiana venne recepita anche dal Codice pio-benedettino del 1917 e in minor misura dal CIC 1983: cfr. il can. 27, § 1 CIC 1917, corrispondente al can. 24, § 1 CIC 1983, e il can. 1509, n. 1 CIC 1917, corrispondente al can. 199, n. 1 CIC 1983), e quindi, come ho ricordato sopra, deve esercitarla, per il diritto divino stesso, in comunione (v. can. 209, § 1) con gli altri vescovi (in qualità di “Collegii Episcoporum caput”, vale a dire di “capo del Collegio dei Vescovi”), anzi con tutta la Chiesa (immo et universa Ecclesia”, come leggiamo nel § 2 del can. 333 CIC 1983), ancorché il Romano Pontefice abbia il diritto di determinare, secondo le necessità della Chiesa, il modo, sia personale sia collegiale, di esercitare il suo munus (v. il can. 333, § 2 citato sopra) e, in forza di detto munus, non dipenda, in questo libero esercizio della sua potestà ordinaria, dagli altri vescovi, come si evince chiaramente dal citato can. 331:

Ecclesiae Romanae Episcopus, in quo permanet munus a Domino singulariter Petro, primo Apostolorum, concessum et successoribus eius transmittendum, Collegii Episcoporum est caput, Vicarius Christi atque universae Ecclesiae his in terris Pastor; qui ideo vi muneris sui suprema, plena, immediata et universali in Ecclesia gaudet ordinaria potestate, quam semper libere exercere valet” (can. 331 CIC 1983; cfr. Lumen gentium, n. 22b; Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Christus Dominus, n. 2a e Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, nn. 9 e 12b).

Se le fantasiose e interessate congetture in merito ai termini munus e ministerium, che hanno cominciato a circolare diffusamente dopo la rinuncia di Benedetto XVI al ministerium di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro(quindi, inequivocabilmente, al ministero petrino e all'annesso primato di giurisdizione(3), cioè alla “potestà dell’officio per il governo della Chiesa, come Benedetto XVI ebbe a dire nel corso dell'ultima Udienza Generale di mercoledì, 27 febbraio 2013 in Piazza San Pietro), annunciata nella Declaratio dell'11 febbraio 2013, vi hanno disorientato e desiderate un po' di chiarezza sul significato e l'uso di questi termini (e del vocabolo officium) nel CIC 1917, nei documenti del Conc. Ecum. Vat. II e soprattutto nel CIC 1983, vi consiglio, en passant, la lettura del più accurato, fino ad oggi, studio magistrale in argomento: Péter Erdő, Ministerium, munus et officium in Codice Iuris Canonici, in Periodica de re morali canonica liturgica, Vol. LXXVIII (1989), N. 4, Pontificia Universitas Gregoriana, Roma 1989, pp. 411-436. Questo breve saggio, che va letto per intero, esordisce con le seguenti parole:Ministerium, munus et officium sunt vocabula non parva ex parte synonyma (Péter Erdő, op. cit., p. 411), che letteralmente significano: Ministerium, munus e officium sono vocaboli in non piccola parte sinonimi

Come è pacifico in dottrina, il can. 332, § 2 (che è irritante: ai sensi del can. 10, è da ritenersi irritante la legge con cui si stabilisce espressamente la nullità di un atto) non prescrive nessuna modalità concreta con cui la rinuncia all'ufficio di Romano Pontefice debba essere fatta ad validitatem, ma solo che essa, oltre a essere libera (cfr. can. 188), sia debitamente (rite) manifestata, nella forma ritenuta più opportuna dal rinunciante, perché la suddetta rinuncia, per essere valida, non abbisogna dell'accettazione da parte di alcuno; inoltre, poiché tale rinuncia costituisce un atto personale del Romano Pontefice, che implica l'esercizio del suo primato di giurisdizione, l'eventuale inesistenza di una iusta causa (giusta causa”) ex can. 187 (già di per sé giuridicamente non irritante), che la giustifichi, non la renderebbe invalida, ma solo illecita dal punto di vista morale (cfr. ex multis Luigi Chiappetta, Il Codice di diritto canonico. Commento giuridico-pastorale, a cura di F. Catozzella, A. Catta, C. Izzi e L. Sabbarese, Terza edizione, Vol. 1, EDB, Bologna 2011, p. 426).

Il teologo Karl Rahner, commentando il n. 22 della Costituzione dogmatica Lumen gentium, scrive che “la Commissione Teologica del Concilio ha respinto la proposta del Papa stesso [Paolo VI] di dire in questo articolo che il papa nel suo agire è «uni Deo devinctus»(7), come superflua e tale da semplificare la verità (Schema del 3.7.1964, p. 93), con la motivazione: «Romanus Pontifex enim etiam observare tenetur ipsam Revelationem, structuram fundamentalem Ecclesiae, sacramenta, definitiones priorum Conciliorum etc. Quae omnia enumerari nequeunt»(8)” (Karl Rahner, La gerarchia nella Chiesa. Commento al capitolo III di Lumen Gentium, trad. it. di G. Colombi, Morcelliana, Brescia 2008, p. 40; cfr. Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. Il Primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, n. 7) e, poche righe dopo, si fa portavoce dell'opinione autorevole, ma molto ingenua, secondo cui “in ultima istanza, non ha alcun senso argomentare, contro il primato e contro la dottrina, delimitata in questa Costituzione, sulla struttura sinodale della Chiesa, che, secondo tale dottrina, il papa “potrebbe” insomma fare comunque tutto da solo e praticamente escludere il collegio episcopale. A un’argomentazione del genere vè semplicemente da replicare: sì, egli “può”, ma non lo farà. Contro un tale agire il cattolico non richiede più una norma giuridica di cui rivendicare lattuazione, ma confida nella potenza della grazia e dello Spirito di Dio nella Chiesa, analogamente al modo in cui il cristiano evangelico si colloca di fronte alla possibilità che la sua libera teologia “possa” condurre al sovvertimento assoluto dei dogmi fondamentali del cristianesimo(ivi, p. 41; cfr. Lumen gentium, n. 25a; Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3070-3071; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 892; Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. Il Primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, nn. 8-10; cann. 752 e 754; v. anche il can. 750, § 2, sulle dottrine che non costituiscono veri e propri dogmi di fede, ma a cui si deve un assenso di fides tenenda ― fondato sulla cit. potenza della grazia e dello Spirito di Dio nella Chiesa e sulla dottrina circa l'infallibilità del magistero ―, e non di fides credenda ― che significa fede nella Rivelazione ―, richiamata nel § 1 di questo stesso canone: cfr. Congr. per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei”, nn. 5-8).

Non reputo utile soffermarmi ulteriormente sulle argomentazioni contenute in quest'ultima citazione di Karl Rahner, perché la storia ha già provveduto da sola a confutarle. Personalmente considero storico anche il c.d. incidente di Antiochia (v. Gal 2, 11-14), in cui Paolo di Tarso si oppose a viso aperto perché aveva torto” (Gal 2, 11. Bibbia CEI 2008) a un personaggio denominato “Cefa, che, a mio avviso, malgrado l'opinione contraria di qualche studioso, corrisponde all'apostolo cui Gesù impose il nome di Cefa” (Pietro), ovvero a Simone, figlio di Giona”, secondo il vangelo di Matteo (Mt 16, 17), o figlio di Giovanni, secondo quello giovanneo (Gv 1, 42; v. anche Gv 21, 15-17).

In merito al dovere di obbedienza da parte di tutti i fedeli, escluso ovviamente il Papa, ai sacri Pastori, v. can. 212, § 1, che, tuttavia, richiamando la cristiana obbedienza, prestata nella consapevolezza della propria responsabilità”, conferma l'esistenza del diritto/dovere di non obbedire a un ordine (o, più in generale, a una legge ecclesiastica o civile) che, seppur proveniente dall'autorità legittima, sia palesemente e gravemente irragionevole (ad esempio, nel caso in cui implicasse un male grave e certo, come indicato da Paolo VI al n. 28b dell'Esort. Ap. Evangelica testificatio) e/o in evidente contraddizione con il diritto divino, sia naturale che positivo, e con i princìpi e i valori fondamentali dell'ordinamento della Chiesa Cattolica, che su di esso riposano (v. S. Th., I-II, q. 91, a. 4, co.; II-II, q. 104, a. 5, co. e ad 2; Francisco Suárez, Opus de triplici virtute theologica, Fide, Spe, & Charitate, sumptibus Iacobi Cardon & Petri Cavellat, Lugduni 1621, p. 206; Giovanni XXIII, Lett. Enc. Pacem in terris, nn. 27-29; Conc. Ecum. Vat. II, Dich. Dignitatis humanae, n. 3c; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1776-1794): dunque gli ordini o le norme giuridiche irrazionali (cfr. S. Th., I-II, q. 93, a. 3, ad 2), cioè non possibilinecessari o convenienti per il bene comune, o non compatibili con il diritto divino, o che, comunque, comandano atti che sono, dal punto di vista giuridico, morale o religioso, illeciti, non obbligano in coscienza ed è del tutto lecito disubbidire a essi (purché si eviti lo scandalo o un danno maggiore), anzi, non si deve mai ubbidire agli ordini e alle leggi (denominate da Francisco Suárez leges inhonestae”), che, sebbene emanati da chi detiene la potestà sufficiente a vincolare i destinatari, sono contrari ai comandamenti di Dio e al bonum divinum, ossia al bene divino(v. Tommaso d'Aquino, S. Th., I-II, q. 96, a. 4 e cfr. il Post La vittoria di Antigone).

Rammento a chi nega pretestuosamente la legittimità dell'elezione di papa Francesco, che, per la Chiesa Cattolica, la legittimità dellelezione del Sommo Pontefice è sicuramente una delle verità connesse con la rivelazione per necessità storica, che sono da tenersi in modo definitivo(Congr. per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei”, n. 11; v. anche ibid., n. 7), ovverosia è uno dei fatti e delle verità de fide tenenda, necessari per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede (v. ibid., n. 6 e can. 750, § 2). Chi le [queste verità] negasse, assumerebbe una posizione di rifiuto di verità della dottrina cattolica e pertanto non sarebbe più in piena comunione con la Chiesa cattolica [corsivo originale] (Congr. per la Dottrina della Fede, op. cit., n. 6; cfr. ancora il can. 750, § 2), perché queste verità e questi fatti, così come quelli de fide credenda, richiedono un assenso di fede fermo e definitivo, pieno e irrevocabile (v. Congr. per la Dottrina della Fede, op. cit., nn. 6 e 8), quantunque tale assenso, a differenza di quello richiesto per le dottrine de fide credenda, non sia fondato direttamente sulla fede nell'autorità della Parola di Dio (v. ibid.): infatti la legittimità dellelezione del Sommo Ponteficefa parte dei fatti dogmatici insegnati infallibilmente dal magistero della Chiesa (v. ibid., n. 11 e Ludovico Ott, Compendio di teologia dogmatica, IV ed. interamente rifusa al Concilio Vaticano II, edizione italiana a cura di N. Bussi, Marietti-Herder, Torino-Roma 1969, pp. 20-21).

Non costituisce, invece, una verità de fide credenda o de fide tenenda la pretesa impossibilità, sostenuta da qualche teologo e smentita dalla dottrina canonistica più avvertita e dal magistero (si ricordino, ad esempio, le ripetute condanne post mortem per eresia ―, papali e conciliari, del papa Onorio I), che il Romano Pontefice cada in eresia (fatta salva l'infallibilità dei pronunciamenti ex cathedra: v. Cost. dogm. Pastor aeternus, cit.: DS 3074), anche se la Chiesa Cattolica insegna, come vi ho già accennato sopra, che l'assistenza divina è data, in modo speciale, al Vescovo di Roma, Pastore di tutta la Chiesa, quando, pur senza arrivare ad una definizione infallibile e senza pronunciarsi in «maniera definitiva», propone, nell’esercizio del Magistero ordinario, un insegnamento che porta ad una migliore intelligenza della Rivelazione in materia di fede e di costumi (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 892; v. anche Lumen gentium, n. 25a; Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3070-3071; Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. Il Primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa, nn. 8-10; cann. 752 e 754).

Ogni fedele cattolico è tenuto a credere che l'assistenza dello Spirito Santo (che non può sbagliare e non lascia errare: cfr. Gv 14, 16-17. 26) alla Chiesa garantisce che essa è indefettibile (che cioè durerà sino al promesso ritorno di Cristo, conservando integro e inalterato il deposito della fede che le è stato affidato: cfr. Cost. dogm. Pastor aeternus, cit.: DS 3056; Lumen gentium, n. 9d e quanto ho scritto infra nella nota (8) di questo Post) e infallibile (cfr. Gv 16, 13-15; Lumen gentium, n. 25; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 869 e 2035; Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. Mysterium Ecclesiae, nn. 2-3); l'infallibilità della Chiesa è implicata dalla suddetta prerogativa dell'indefettibilità e comporta anche l'infallibilità del Papa, che è infallibile come e in quanto lo è la Chiesa e alle condizioni da essa stabilite (v. can. 749, § 1 e Cost. dogm. Pastor aeternus, cit.: DS 3074): cfr. Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. Dei Filius de fide catholica: DS 3013-3014 e 3020. La Chiesa, infatti, non potrebbe giustificare e adempiere il mandato (ricevuto insieme con l'apostolicum munus docendi: cfr. DS 3018) di custodire santamente ed esporre fedelmente la Rivelazione trasmessa dagli Apostoli, ovvero il deposito della fede”, se non potesse decidere infallibilmente in merito sia alle verità di fede e di morale formalmente rivelate(1) (oggetto primario dell'infallibilità) sia a quelle strettamente connesse con la Rivelazione (oggetto secondario dell'infallibilità): cfr. Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. Dei Filius, cit.: DS 3012, 3018 e 3020; Cost. dogm. Pastor aeternus, cit.: DS 3070.

Comunque un Papa in carica, anche se eretico, scismatico o apostata, a norma del diritto canonico vigente, non può essere giudicato da nessuno (secondo la dottrina più recente e autorevole anche questa prerogativa appartiene al diritto divino o almeno alle verità de fide tenenda, in quanto necessariamente connessa alla Rivelazione divina, sia per ragioni storiche sia come logica conseguenza del dogma del primato di giurisdizione detenuto dal Romano Pontefice) e quindi non può essere deposto da nessuno, proprio in virtù della sua potestà suprema di governo, cioè del primato di giurisdizione di cui vi ho scritto sopra (v. can. 331; Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3055; Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, n. 18; Congr. per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei”, n. 3): chi desidera averne contezza non ha che da leggere il can. 1404, anziché seguire le opinioni di pubblicisti/e del tutto incompetenti (ma desiderosi/e di affermarsi):

Prima Sedes a nemine iudicatur(9) (can. 1404 CIC 1983).

Questa norma, collocata nel Titulus De foro competenti (nella Pars I,  De iudiciis in genere”, del Liber VII, De processibus), poiché intenzionalmente (stando alla mens legislatoris, cioè all'intendimento del legislatore”, che appare più probabile: cfr. can. 17) non specifica a quale tipologia di giudizio si riferisca, vieta (considerate altresì la sua occasio e la sua ratio(9)) che il Romano Pontefice venga sottoposto a ogni tipo di giudizio (sia esso contenzioso ordinario, anche nella sua forma semplificata costituita dal processo contenzioso orale, o speciale, come quello penale) da qualsiasi autorità, ecclesiastica o secolare, e attualmente è applicabile anche nel caso in cui il Papa deprehendatur a fide devius” (cioè sia scoperto deviante dalla fede, come nel caso di eresia), nonostante in dottrina sia ben noto lo storico parere contrario del card. Umberto di Silva Candida (incorporato, grazie al Decretum Gratiani, che lo ha recepito, nel Corpus Iuris Canonici, vigente fino al 19 maggio 1918, giorno in cui entrò il vigore il CIC 1917): Cuius culpas istic redarguere presumit mortalium nullus, quia cunctos ipse iudicaturus a nemine est iudicandus, nisi forte deprehendatur a fide devius (Humbertus a Silva Candida, De Sancta Romana Ecclesia, Fragmentum A; v. anche Adriano II, Allocutio tertia praefati pontificis, a. 869, in Giovanni Domenico Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Tomus decimus sextus, apud Antonium Zatta, Venetiis 1771, col. 126; Deusdedit, Collectio canonum, cap. CCCVI del Lib. I nell'ed. di V. W. von Glanvell del 1905,  corrispondente al CCXXXI nell'ed. di P. Martinucci del 1869; Ivo di Chartres, Decretum, V, cap. 23; Graziano, Concordia discordantium canonum [op. conosciuta anche come Decretum Gratiani], Dist. XL, c. 6: negli ultimi due luoghi citati troviamo Huius al posto del Cuius” iniziale). La dottrina (la doctorum sententia) non può mai essere considerata una fonte di produzione del diritto canonico superiore a quella delle leges (ad esempio, di quelle contenute nella fonte di cognizione costituita dal CIC 1983), ma solo una fonte suppletiva, qualora essa esprima un parere comune e costante (v. can. 19), se su una determinata materia manca una espressa disposizione di legge sia universale sia particolare o una consuetudine (can. 19 CIC 1983, trad. it. consultabile all'indirizzo web: www.vatican.va/archive/cod-iuris-canonici/ita/documents/cic_libroI_7-22_it.html#TITOLO_I); il CIC 1983 stabilisce inoltre che la legge posteriore abroga la precedente o deroga alla medesima, se lo indica espressamente, o è direttamente contraria a quella, oppure riordina integralmente tutta quanta la materia della legge precedente; la legge universale però non deroga affatto al diritto particolare o speciale, a meno che non sia disposto espressamente altro dal diritto” (can. 20 CIC 1983, trad. it. consultabile ibid.). 

A chi s'interroga sul significato del termine lex”, legge”, nel diritto canonico, è utile conoscere la nota definizione di legge proposta dal già citato Francisco Suárez: Lex est commune praeceptum justum, ac stabile sufficienter promulgatum [interpunzione originale]” (Francisco Suárez, Tractatus de legibus, ac Deo Legislatore, sumptibus J. Dunmore, T. Dring, B. Tooke & T. Sawbridge, Londini 1679, p. 37), che significa: “La legge è un comando comune [tale carattere della legge in generale non impedisce l'esistenza di leggi particolari, emanate da autorità il cui potere si esercita solo su una parte dei fedeli], giusto e stabile, sufficientemente promulgato”; v. anche la definizione di Tommaso d'Aquino nel paragrafo intitolato “La legge naturale del Post Un monaco calunniato: san Macario il Grande – La legge naturale.

Le tesi conciliariste (secondo cui l'autorità del Concilio Ecumenico è superiore a quella del Papa) espresse nel decreto Haec sancta e nella Costituzione Frequens generalium conciliorum del Concilio di Costanza  che papa Martino V obbligò a riconoscere come ecumenico e sacro (v. DS 1247-1248), malgrado sia assai discusso in che misura egli ne abbia confermato le decisioni e nella II sessione di quello di Basilea, tesi fomentate dalla torbida crisi politica ed ecclesiale manifestatasi al principio del XIV secolo e sfociata nel c.d. scisma d'Occidente del 1378, non essendo state accolte dai Concili e dai Papi successivi (cfr. DS 1307, 1445, 2282, 2284 e 3063), sono da considerarsi prive di ogni validità giuridica. Ricordo che spetta unicamente al Romano Pontefice convocare il Concilio Ecumenico, che egli presiede personalmente o per mezzo di altri (v. can. 338, § 1), e determinare le questioni da trattare in esso (v. can. 338, § 2); che hanno forza obbligante solo quelle decisioni del Concilio che siano state approvate, confermate e promulgate dal Papa (v. can. 341, § 1) e che, per avere forza obbligante, devono avere la stessa conferma e promulgazione anche i decreti emanati dal Collegio dei vescovi, allorquando esso pone un'azione propriamente collegiale secondo un altro modo (iuxta alium modum”), indotto (inductum”: si deve fare sempre riferimento al testo ufficiale latino) dal Romano Pontefice o da lui liberamente recepito (v. can 341, § 2 e cfr. can. 337, § 3).

I canonisti Franz Xaver Wernz e Pedro Vidal argomentano fondatamente che un Papa eretico “[...] potestate sua privari non potest per meram sententiam declaratoriam [corsivi originali]” (Ius Canonicum, auctore P. Francisco Xav. Wernz S.I., ad Codicis Normam Exactum opera P. Petri Vidal S.I., Tomus II - De Personis, Editio Tertia, a P. Philippo Aguirre S.I. recognita, apud Aedes Universitatis Gregorianae, Roma 1943, p. 518), vale a dire che “non può essere privato della sua potestà per mezzo di una mera sentenza dichiarativa”, in quanto “omnis sententia iudicialis privationis supponit iurisdictionem superiorem [corsivo originale] in illum, contra quem fertur sententia” (ibid.), cioè in quanto “ogni sentenza giudiziale di privazione presuppone una giurisdizione superiore a quella di colui contro il quale la sentenza è pronunciata”: pertanto neppure un Concilio Generale (detto anche Ecumenico) potrebbe deporre il Romano Pontefice, qualora egli cadesse in eresia, perché una sentenza dichiarativa del Concilio che lo privasse della sua potestà sarebbe una sentenza pronunciata da un'autorità inferiore a quella del Papa regnante, dato che quest'ultimo, prima di tale sentenza, godrebbe ancora del primato di giurisdizione (cfr. ibid.; Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3063; cann. 333, § 3; 338-341 e 1366 CIC 1983). Quest'antinomia dell'ordinamento canonico, ormai innegabile e sempre più manifesta al popolo di Dio (soprattutto a causa delle reiterate accuse di eresia contro papa Francesco), non può essere superata definitivamente dalla sola dottrina canonistica, ma deve essere risolta dalla legittima autorità ecclesiastica, anche per evitare che aumentino il disorientamento e lo scandalo tra i fedeli: Per i cristiani il valore supremo sono le coscienze: esse meritano dunque il massimo rispetto” (Ignazio Silone, L'avventura d'un povero cristiano, Arnoldo Mondadori Editore, XIV ed., Milano 1973, p. 147). Mentre nel diritto romano ai prudentes (ovvero ai competenti in diritto) era consentito iura condere” (cioè creare diritto”: v., ad esempio, Gaio, Institutiones, I. 7), nell'ordinamento canonico vigente, invece, i responsi dei doctores (etimologicamente coloro che insegnano”, citati nel can. 19), se comuni e costanti, possono costituire solo una fonte suppletiva (e mai principale) del diritto canonico, come vi ho già comunicato, pur essendo in grado di fornire preziose indicazioni al legislatore che statuirà le nuove norme giuridiche. Ad ogni modo, i christifideles devono, in foro (inteso tecnicamente come l'àmbito dell'esercizio di una potestà o di una facoltà) interno (quello che riguarda la sfera privata della coscienza e del bene particolare), tener conto di eventuali eresie papali di cui vengano a conoscenza, anche se non è stata dichiarata nessuna scomunica, atteso che la potestà di governo, di per sé esercitata in foro esterno (che si riferisce all'àmbito pubblico delle relazioni sociali e del bene comune), talora è esercitata nel solo foro interno, in modo tale, tuttavia, che gli effetti del suo esercizio nel foro esterno non siano riconosciuti in quello interno, se non in quanto ciò sia stabilito dal diritto per casi determinati (v. can. 130): poiché la Chiesa ha il potere di esigere dai propri fedeli anche il compimento di atti interni (atti di pensiero e di volontà che possono non manifestarsi esternamente), l'esercizio della potestà in foro esterno può produrre obblighi anche in foro interno (cfr. cann. 1401; 747, § 2; 75o-753; Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. Dei Filius de fide catholica: DS 3008; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, n. 5 e Cost. dogm. Lumen gentium, n. 25; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 143, 892 e 2087-2089; Congr. per la Dottrina della Fede, Istruz. Donum Veritatis, nn. 23-24 e Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei”, n. 10).

 

Jean-Paul Laurens, Il Papa e l'Inquisitore / Sisto IV e Torquemada
Jean-Paul Laurens, Il Papa e l'Inquisitore / Sisto IV e Torquemada.

Al massimo, in caso di distacco dalla comunione da parte del vescovo della Chiesa di Roma (ossia da parte del Papa), gli altri vescovi (che non possono agire come Collegio, qualora manchi, all'interno di esso, la libera azione del Romano Pontefice quale suo capo: cfr. Lumen gentium, n. 22b; Nota Explicativa Praevia alla Lumen gentium, nn. 3-4 e cann. 336-337) e/o i Cardinali (a cui è consentito riunirsi nei Concistori solo per ordine e sotto la presidenza del Papa: v. can. 353, § 1) potrebbero dichiarare questo fatto agli altri christifideles (prae oculis habita salute animarum, quae in Ecclesia suprema semper lex esse debet”, cioè avendo presente la salvezza delle anime, che nella Chiesa deve essere sempre la legge suprema”, come recita il can. 1752 CIC 1983), con conseguenze francamente imprevedibili.

 
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(1) Nella Chiesa Cattolica così è stabilito: “Dicitur haeresis, pertinax, post receptum baptismum, alicuius veritatis fide divina et catholica credendae denegatio, aut de eadem pertinax dubitatio” (can. 751 CIC 1983), cioè “viene detta eresia, la negazione ostinata [pertinax”], dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa”; per comprendere in modo corretto il canone appena citato, bisogna conoscere quello immediatamente precedente, che, al § 1, statuisce: Fide divina et catholica ea omnia credenda sunt quae verbo Dei scripto vel tradito, uno scilicet fidei deposito Ecclesiae commisso, continentur, et insimul ut divinitus revelata proponuntur sive ab Ecclesiae magisterio sollemni, sive ab eius magisterio ordinario et universali, quod quidem communi adhaesione christifidelium sub ductu sacri magisterii manifestatur [...]” (can. 750, § 1 CIC 1983, v. anche Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. Dei Filius de fide catholica: DS 3011), ovvero per fede divina e cattolica si devono credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata [verbo Dei scripto vel tradito], vale a dire nell'unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che, insieme [insimul”] a ciò, sono proposte come divinamente rivelate sia dal magistero solenne della Chiesa [v. can. 749, §§ 1 e 2a], sia dal suo magistero ordinario e universale [v. can. 749, § 2b e Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 25b], ovverosia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero [...]”. Quindi, perché una verità possa definirsi di fede divina e cattolica”, non basta che sia contenuta nella parola di Dio scritta o tramandata” (cioè nella Sacra Scrittura o nella Sacra Tradizione), “vale a dire nell'unico deposito della fede affidato alla Chiesa (v. infra la nota (8) di questo stesso Post), ma si richiede altresì che sia proposta, in modo manifestamente (v. il § 3 del can. 749) infallibile e definitivo, come divinamente rivelata”, dal magistero straordinario e solenne con un atto definitorio(v. Congr. per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei, n. 9) oppure da quello ordinario e universale con un atto non definitorio(v. ibid.): l'atto definitorio consiste nell'atto solenne con cui una verità o una dottrina, di per sé definitiva, viene proclamata; il Romano Pontefice può dichiarare esplicitamente se tale dottrina appartiene allinsegnamento del magistero ordinario e universale come verità divinamente rivelata, conformemente al § 1 del can. 750, o solo “come verità della dottrina cattolica”, ai sensi del § 2 del medesimo can. 750 (v. Congr. per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei, n. 9). L'autore di tale delictum contra fidem (l'eresia) è punito con la scomunica latae sententiae (si incorre nella pena latae sententiae per il fatto stesso di aver commesso il delitto, senza che sia necessario infliggerla con sentenza o decreto: v. can. 1314; in merito alla pena latae sententiae dichiarata con decreto extragiudiziale, v. cann. 1342 e 1720) e, eventualmente, con le pene di cui al can. 1336, §§ 2-4 (v. can. 1364, § 1); nei casi in cui lo richieda la prolungata contumacia (nel diritto penale canonico viene denominata contumaciala permanenza del delinquente nello stato di colpevolezza) o la gravità dello scandalo, il reo può essere punito anche con altre pene, non esclusa la dimissione dallo stato clericale (v. can. 1364, § 2). Questo delitto comporta anche la perdita ipso iure (cioè per il diritto stesso, senza che la norma richieda altro: si tratta di diritto divino e non meramente umano) dell'ufficio ecclesiastico, qualora il colpevole ne sia titolare (v. can. 194, § 1, n. 2): Officium ecclesiasticum est quodlibet munus ordinatione sive divina sive ecclesiastica stabiliter constitutum in finem spiritualem exercendum” (can. 145, § 1 CIC 1983), ossia “l'ufficio ecclesiastico è qualsiasi incarico [munus”], costituito stabilmente per disposizione sia divina sia ecclesiastica, da esercitare per un fine spirituale”; tuttavia, per diritto umano, la rimozione dall'ufficio ecclesiatico, di cui al n. 2 del § 1 del can. 194, può essere sollecitata solo se consti della medesima da una dichiarazione dell'autorità competente (v. can. 194, § 2) e, per diritto divino, non esiste nessuna autorità ecclesiastica superiore a quella del Romano Pontefice (v. can. 331). Allo scomunicato è proibito di porre atti di governo (v. can. 1331, § 1, n. 6), che sono quindi illeciti (posti cioè in violazione del diritto, ma non per questo invalidi nell'ordinamento canonico: cfr. cann. 10, 18 e 124); sono anche invalidi nel caso in cui la scomunica latae sententiae sia stata dichiarata (v. can. 1331, § 2, n. 2), salvo il disposto del can. 1335, § 2: è sempre (non solo in caso di pericolo di morte) lecito per i fedeli chiedere sacramenti (compresa la celebrazione dell'Eucaristia), sacramentali o atti di potestà di governo a chierici eretici, scismatici o apostati, purché la scomunica (o altra censura canonica) latae sententiae non sia stata dichiarata e sussista una qualsiasi giusta causa (v. il cit. can. 1335, § 2). In relazione al soggetto passivo delle sanzioni penali, il principio fondamentale nulla poena sine culpa” (nessuna pena è applicabile in mancanza di colpevolezza, cioè di rimproverabilità soggettiva del fatto antigiuridico: ad esempio in caso di incapacità di intendere e di volere) è stato così recepito dal CIC 1983: “Nemo punitur, nisi externa legis vel praecepti violatio, ab eo commissa, sit graviter imputabilis ex dolo vel ex culpa” (can. 1321, § 2 CIC 1983), che significa: “Nessuno è punito, se la violazione esterna [externa] della legge o del precetto, da lui commessa, non sia gravemente imputabile per dolo o per colpa [cfr. Dicastero per i Testi Legislativi, De sanctionibus poenalibus in Ecclesia, nn. 16, 18 e, in relazione a delitti come l'eresia e l'apostasia, anche nn. 32 e 87]”. Pertanto, perché si configuri il delitto canonico di eresia, passibile di sanzioni penali, si richiede che l'eresia sia formale (che cioè la negazione o il dubbio di cui al can. 751 siano ostinati, frutto di un'adesione pienamente consapevole e deliberata a una dottrina che si oppone alla regola della fede divina e cattolica) e che sia manifestata esternamente (a molte o poche persone, anche in segreto): “Delictum quod in declaratione consistat vel in alia voluntatis vel doctrinae vel scientiae manifestatione, tamquam non consummatum censendum est, si nemo eam declarationem vel manifestationem percipiat” (can. 1330 CIC 1983), vale a dire: “Il delitto che consista in una dichiarazione o in altra manifestazione di volontà o di dottrina o di scienza, deve considerarsi come non consumato, qualora nessuno percepisca tale dichiarazione o manifestazione”.

(2) La sigla DS (molto usata nei documenti magisteriali degli ultimi decenni) significa Denzinger-Schönmetzer e fa riferimento a un'opera dei teologi Heinrich Joseph Dominicus Denzinger e Adolf Schönmetzer S.I., intitolata Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed edita, per la prima volta, dal solo Denzinger, nel 1854. Il numero che segue la sigla DS fa parte della numerazione introdotta nell'edizione del 1963 da Schönmetzer, notevolmente diversa da quella delle edizioni precedenti. Tale numero corrisponde a quello presente nell'edizione più recente di quest'opera, curata da Peter Hünermann, che viene usualmente indicata con la sigla DH.

(3) “Potestas iurisdictionis est […] ius dirigendi coactive actus subditorum, est proinde potestas ferendi leges, iudicandi de actibus subditorum eosque coercendi poenis: potestas scilicet legifera, iudicialis, coercitiva [corsivo originale]” (Domenico Palmieri S.I., Tractatus de Romano Pontifice cum Prolegomeno de Ecclesia, Editio altera, Ex Officina Libraria Giachetti, Filii et Soc., Prato 1891, p. 71), vale a dire che “la potestà di giurisdizione è […] il diritto di dirigere coattivamente gli atti dei sudditi, è quindi il potere di produrre leggi, di giudicare degli atti dei sudditi e di costringerli mediante sanzioni penali [cfr. can. 1311, § 1]: cioè la potestà legislativa, giudiziale, coercitiva”. Ai sensi del CIC 1983 attualmente in vigore, “potestas iurisdictionis”, ossia potestà di giurisdizione, è sinonimo di potestas regiminis”, cioè di potestà di governo (v. can. 129, § 1), che distinguitur in legislativam, exsecutivam et iudicialem(can. 135, § 1 CIC 1983), ovvero che viene distinta in legislativa, esecutiva e giudiziale”. La posición de supremacía del Papa está en [...] la plenitud de la potestad de jurisdicción, que recibe independientemente de su consagración. [...] La esencia del primado está por tanto, según los canonistas clásicos, en el poder de gobierno sobre toda la Iglesia y en modo alguno en una potestad de orden distinta de la de los obispos. En consecuencia, quien no quiera reconocer la diferencia entre poder de orden y de jurisdicción debe negar también la esencia del primado papal en cuanto tal(Alfonso Maria Stickler, La bipartición de la potestad eclesiástica en su perspectiva histórica, in Ius Canonicum, Vol. XV (1975), N. 29, Ediciones Universidad de Navarra, S.A. (EUNSA), Barañain-Pamplona 1975, pp. 60-61), che significa: “La posizione di supremazia del Papa risiede [...] nella pienezza della potestà di giuridizione [cfr. can. 331], che riceve indipendentemente dalla sua consacrazione. [...] L'essenza del primato risiede quindi, secondo i canonisti classici, nel potere di governo su tutta la Chiesa e in nessun modo in una potestà d'ordine distinta da quella dei vescovi. Di conseguenza, chi non vuole riconoscere la differenza tra potere di ordine e di giurisdizione deve negare anche l'essenza del primato papale in quanto tale”. In alternativa all'attuale tripartizione tra potestà di ordine (oggi si preferisce usare l'espressione “munus sanctificandi”), di giurisdizione (“munus regendi”) e di magistero (“munus docendi”), in passato veniva insegnata anche una bipartizione della sacra potestas in potestà di ordine e potestà di giurisdizione, perché diversi canonisti ritenevano che la potestà di magistero fosse inclusa in quella di giurisdizione: “[...] potestas autem iurisdictionis includit potestatem docendi [corsivo originale]” (Catechismus Catholicus, cura et studio Petri Cardinalis Gasparri concinnatus, Q. 49 et R., Decimaquarta Editio, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1933, p. 45), vale a dire: “[...] la potestà di giurisdizione include la potestà di insegnare”. Nel Primato Apostolico, posseduto dal Romano Pontefice, è contenuta anche la suprema potestà di magistero (v. Conc. Ecum. Vat. I, Pastor aeternus, cit.: DS 3065).

(4) “[…] potestas sive iurisdictio ordinaria [corsivo originale] usu ecclesiastico dicitur ea, quae dignitati vel magistratui vel praefecturae ipso iure sive divino sive humano annexa est, quam quis proinde non vi specialis delegationis, sed vi suae dignitatis suique officii exercet” (Domenico Palmieri S.I., op. cit., p. 438), cioè “[…] nell'uso ecclesiastico si dice potestà o giurisdizione ordinaria quella che è annessa a una dignità o a una carica o a una prefettura per il diritto stesso, sia divino sia umano, e che, quindi, una persona esercita non in virtù di una speciale delega, ma in forza della sua dignità e del suo ufficio [cfr. can. 131]”.

(5)La ragione [per il Suárez] è solo lorgano della natura razionale delluomo; ha il compito di scoprire in essa i principi fondamentali del diritto naturale a cui appartengono però, come parte integrante, anche le conclusioni logicamente necessarie. […] Ribadendo con fermezza limmutabilità, luniversalità e linderogabilità del diritto naturale, il Suarez afferma che, a seconda delle circostanze umane a cui esso deve essere applicato, i primi principi, pur restando uguali, possono ordinare cose diverse” (Eugenio Corecco, Diritto, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, Vol. 1, Casa Editrice Marietti, Torino 1977, p. 131).

(6) Rivelato e promulgato per mezzo della Sacra Scrittura e della Tradizione di origine apostolica: molti autorevoli canonisti hanno espresso il parere che le prescrizioni veterotestamentarie siano da considerarsi superate se non sono state confermate dal Nuovo Testamento (v. Alphonse van Hove, Prolegomena [ad Codicem iuris canonici], Editio Altera, H. Dessain, Mechliniae-Romae 1945, pp. 50-51)

(7) Cioè «vincolato al solo Dio».

(8) Vi traduco letteralmente le parole latine citate tra virgolette, perché sono di grande utilità nel valutare l'ortodossia di un Papa (rispetto al depositum fidei): «Infatti il ​​Romano Pontefice è tenuto anche a osservare la Rivelazione stessa, la struttura fondamentale della Chiesa, i sacramenti, le definizioni dei Concili precedenti, ecc. Queste cose non possono essere enumerate tutte». Il depositum fidei (deposito della fede), contenuto nella Sacra Tradizione e nella Sacra Scrittura (v. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 10a e Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 84), proprio in quanto deposito, non è proprietà di chi lo custodisce, ma di Colui che glielo ha consegnato affinché sia conservato integro, immune da ogni errore: perciò non può essere soggetto ad alterazioni. Secondo l'insegnamento della Chiesa Cattolica, la prerogativa dell'infallibilità è stata conferita da Cristo alla Chiesa perché essa non possa errare nella custodia e nell'esposizione di questo deposito irriformabile. Se il Romano Pontefice, omettendo di proteggere l'integrità della fede che gli Apostoli hanno affidato alla totalità della Chiesa (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, ibid. e cann. 747-754), venisse meno al suo dovere di custodire santamente ed esporre puro e integro (cfr., oltre al già citato can. 747, § 1, anche Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. Dei Filius de fide catholica: DS 3020; Cost. dogm. Pastor aeternus de Ecclesia Christi: DS 3070; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, nn. 7-10; Cost. dogm. Lumen gentium, n. 25c; Paolo VI, Esort. Ap. Quinque iam anni; Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. Ad fidem tuendam in mysteria Incarnationis et Sanctissimae Trinitatis a quibusdam recentis erroribus, n. 7 e Id.Dich. Mysterium Ecclesiae, introd. e n. 1) quanto Gesù ha affidato agli Apostoli ed è già custodito dalla Chiesa stessa (cfr. 1 Tm 6, 20 e 2 Tm 1, 12-14), non sarebbe ovviamente più in comunione con Cristo e il resto della Chiesa universale: pertanto non avrebbe più alcuna autorità su di essa, perché ipso iure perderebbe il suo ufficio primaziale. La struttura giuridica fondamentale della Chiesa è stata voluta da Cristo (cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 18): si basa, quindi, sul diritto divino ed è da tale diritto determinata. Ne consegue che ogni potestà ecclesiastica trova la sua autentica legittimazione unicamente nel diritto divino, che ne costituisce il fondamento vincolante, in quanto la Chiesa si differenzia ontologicamente da ogni società solo umana, perché ha la pretesa di mediare la salvezza, che altro non è se non la giustizia di Dio, cioè quella giustizia per mezzo della quale Dio, per sua grazia e misericordia, ci rende giusti mediante la fede, quindi non passibili di condanna e degni di entrare nel regno di Dio (cfr. Rm 3, 21-28; 2 Cor 5, 19-21; Gal 2, 16; Ef 2, 4-5. 8-10; Tt 3, 4-7), nel giorno in cui, stando alle promesse del Nuovo Testamento, Gesù Cristo tornerà a giudicare tutti gli uomini, vivi e defunti (v. 2 Tm 4, 1), secondo le loro opere (cfr. Rm 2, 5-6. 13. 16; 1 Cor 4, 5; Ap 20, 11-15; 22, 12).

(9) La formulazione testuale di questa norma, che salvaguarda potentemente (soprattutto dalle ingerenze cesaropapiste) la supremazia e l'indipendenza della Prima Sede, risale ad alcuni falsi”, denominati apocrifi simmachiani (si tratta di documenti contraffatti ad personam, per sostenere le posizioni di papa Simmaco, ancor oggi venerato come santo dalla Chiesa Cattolica), apparsi tra il 501 e il 502 d.C., quindi al tempo dello scisma laurenziano, che vedeva contrapposti Simmaco, ricordato come Papa legittimo, e Lorenzo, passato invece alla storia come antipapa: infatti in uno di questi apocrifi, i Vulgatae synodi Suessanae seu Sinuessanae de Marcellino papa gesta, si racconta che, al termine di un fantomatico Sinodo di Sinuessa (che si sarebbe tenuto dentro una grotta situata nei pressi di questa località, mentre erano Augusti Diocleziano e Massimiano, e a cui avrebbero partecipato ben 300 vescovi, 30 presbiteri e 3 diaconi), in realtà mai avvenuto, il vescovo Helciadis avrebbe pronunciato queste parole: [...] prima sedes non iudicabitur a quoquam” (cfr. Carl Joseph von Hefele, Conciliengeschichte, Erster Band, Zweite, verbesserte Auflage, Herder'sche Verlagshandlung, Freiburg im Breisgau 1873, pp. 143-145 e DS 638, nota 2), cioè: [...] la prima sede non sarà giudicata da nessuno”, anche se, nel caso di specie, papa Marcellino sarebbe stato colpevole di eresia e apostasia. Su questo tema, v. altri tre falsi simmachiani: innanzitutto il Constitutum Silvestri, in cui leggiamo gli atti di un immaginario Concilio romano (che si sarebbe tenuto dopo che l'imperatore Costantino I sarebbe stato battezzato da papa Silvestro), il quale, nell'Actio Prima, al Caput III, avrebbe, fra l'altro, stabilito: “[...] neque praesul summus a quoquam iudicabitur, vale a dire: “[...] e il presule sommo non sarà giudicato da nessuno” e che, nell'Actio Secunda, al Caput XX, avrebbe poi aggiunto: Nemo enim iudicabit primam sedem”, ovvero: Nessuno infatti giudicherà la prima sede; quindi i Gesta de Xysti purgatione, in cui si trova scritto che l'ex console Massimo avrebbe dichiarato che non è lecito pronunciare una sentenza contro il pontefice; infine i Gesta de Polychronii episcopi Hierosolymitani accusatione, in cui si afferma, creando artatamente un precedente specifico, la regola secondo cui ogni superiore non può essere accusato o processato dai suoi inferiori (v. anche Constitutum Silvestri, cit., Caput III). Queste falsificazioni contribuirono grandemente alla formazione dell'opinione, tuttora diffusa, che provengano sicuramente dalla Chiesa antica sia il principio dottrinale dell'ingiudicabilità papale (ribadito, fra l'altro, nel Dictatus Papae, nella Concordia discordantium canonum di Graziano, nel Decretum e nella Panormia attribuiti a Ivo di Chartres e nel CIC 1917) sia quello dell'impossibilità, da parte degli inferiori, di giudicare un superiore. Nell'apocrifa Lettera di Clemente a Giacomo fratello del Signore (si tratta di un falso risalente con ogni probabilità al III secolo d.C. e ampiamente manipolato nel tempo), contenuta nelle Decretali dello Pseudo-Isidoro, troviamo scritto che l'apostolo Pietro, poco prima della sua morte, avrebbe nominato vescovo di Roma san Clemente Romano (che fu Papa dall'88 al 97 d.C.), trasmettendogli la potestà di predicare e insegnare ed il potere di legare e di sciogliere, affinché qualunque cosa avesse decretato sulla terra, fosse decretata anche nei cieli ([...] ipsi trado a domino mihi traditam potestatem ligandi et solvendi, ut de omnibus quibuscumque decreverit in terris hoc decretum sit et in caelis: v. Decretales Pseudo-Isidorianae et Capitula Angilramni, a cura di Paulus Hinschius, ex Officina Bernhardi Tauchnitz, Lipsiae 1863, p. 31): in questa lettera (che, come evidenziato dallo storico Walter Ullmann, svolse un ruolo decisivo nel determinare il fondamento giuridico del primato papale) il vescovo di Roma viene indicato come il solo e unico successore di Pietro, chiaramente distinto dagli altri vescovi, in quanto erede del potere di agire allo stesso modo in cui avrebbe agitograzie ai poteri che gli sarebbero stati conferiti da Gesù (v. Mt 16, 19; Gv 21, 15-17)il Principe degli Apostoli (cfr. can. 331).

 

Post scriptum

Ho scritto questo Post per informare correttamente i lettori inesperti di diritto canonico, che sono facilmente gabbati da chi, sia in buona che in mala fede, propina loro speciose falsità e non perché io pensi che la Chiesa e il Papa in particolare possano essere realmente infallibili e che quest'ultimo goda di una speciale assistenza divina”: il Papa è un essere umano come tutti gli altri. Non di rado i potenti violano impunemente le norme giuridiche (anche quelle che hanno posto essi stessi) e, con il supporto di intellettuali complici o conniventi, ne forniscono interpretazioni aberranti. Poche cose intimoriscono i potenti più della verità. Sir John Emerich Edward Dalberg-Acton, in una missiva del 1887, indirizzata al futuro vescovo anglicano di Londra, Mandell Creighton, trovò il coraggio di scrivere: Power tends to corrupt, and absolute power corrupts absolutely. Great men are almost always bad men, even when they exercise influence and not authority”, cioè: Il potere tende a corrompere, e il potere assoluto corrompe in maniera assoluta. I grandi uomini sono quasi sempre uomini malvagi, anche quando esercitano influenza e non autorità”.

 
 

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6 aprile 2023

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