Coloro che disprezzano (anche solamente in cuor loro, come fanno gli ipocriti e le ipocrite, che ormai dominano la scena – sia laica che ecclesiale – di questo mondo)
i valori etico-spirituali, non necessariamente cattolici, e propongono
stili vita caratterizzati da un edonismo consumista e superficiale, alieno da ogni profondo sentimento di solidarietà umana, dovrebbero confrontarsi con le memorabili parole di papa Paolo VI: “Come dobbiamo vivere? Così come viene, senza pensarci? Dobbiamo essere
passivi e conformisti rispetto all’ambiente, al tempo, al costume, alla moda,
alle leggi, alle necessità, in cui praticamente ci troviamo, ovvero dobbiamo in
qualche modo reagire, cioè agire con criterio proprio, con una certa libertà,
almeno di giudizio e, dove è possibile, di scelta? [...] [L'ossequio alla legge naturale] ci difende dall’accusa, che spesso la
letteratura fa alle persone devote, d’essere cioè scrupolose nell’osservanza di
regole pie e minuziose, e di non esserlo altrettanto nell’intransigente fedeltà
alle norme basilari dell’onestà umana, come la sincerità, il rispetto alla vita
o alla parola data, la correttezza amministrativa, la coerenza del costume con
la professione cristiana, e così via. […] Nello smarrimento odierno della nozione di bene e di male, di lecito
ed illecito, di giusto e d’ingiusto, e nella demoralizzante diffusione della
delinquenza e del mal costume, noi faremo bene a conservare e ad approfondire
questo senso della legge naturale, cioè della giustizia, dell’onestà, del bene,
quale la retta ragione non cessa d’ispirare nell’interno della coscienza” (Paolo
VI, Udienza Generale di Mercoledì,
4 marzo 1970, Dicastero per
la Comunicazione-Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano; cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 16 e Dich. Dignitatis humanae, n. 3).
Le
molte persone che non vogliono o non riescono a rinunciare al
soddisfacimento pulsionale, quando tale rinuncia è indispensabile per
uniformarsi alle norme morali o giuridiche, ovviamente non sono nemmeno in grado di comportarsi in modo sempre rispettoso di esse.
Nella Lettera ai Romani, Paolo di Tarso, discostandosi dalle concezioni giudaiche dominanti, arriva ad affermare: “12Tutti quelli che hanno
peccato senza la Legge [la legge mosaica contenuta nella Torah], senza la Legge periranno” (Rm 2, 12. Bibbia CEI 2008), perché, prescindendo da ogni rivelazione positiva, la legge naturale è già scritta nei cuori dei non ebrei (“ἔθνη” nel testo greco dell'epistola): “14Quando i pagani, che non
hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo
Legge, sono legge a se stessi. 15Essi
dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta
dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che
ora li accusano ora li difendono” (Rm 2, 14-15. Bibbia CEI 2008; cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1776-1782; Aurelius Augustinus, Confessionum libri XIII, Liber II, 4, 9: PL 32, 678, in cui leggiamo un riferimento esplicito alla “lex scripta in cordibus hominum, quam ne ipsa quidem delet iniquitas”, ovvero alla “legge scritta nei cuori degli esseri umani, che neppure l'iniquità stessa può cancellare”).
Per il neotomista Jacques Maritain (così come, in età antica, per Filone di Alessandria, Tertulliano e Agostino d'Ippona), “i precetti del Decalogo [cfr. Es 20, 2-17; Dt 5, 6-21. Nota mia] sono essenzialmente una formulazione rivelata dei princìpi della legge naturale” (Jacques Maritain, La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, edizione italiana a cura di A. Pavan, terza edizione, Morcelliana, Brescia 1979, p. 111; cfr. Aurelius Augustinus, Enarrationes in Psalmos, 57, 1: PL 36, 673 e 118, 25, 4: PL 37, 1574; S. Th. I-II, q. 100, a. 3, co.; II-II, q. 122, a. 1, co. e Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1955): quindi il Decalogo mosaico può essere osservato sia come “ordinatio rationis” (“comando” o, per meglio dire, “ordinamento della ragione”) sia come “ordinatio fidei” (“comando” o “ordinamento della fede”). Infatti
la promulgazione divina di questa legge non fa che confermare ciò che
gli esseri umani potrebbero già conoscere per mezzo della “scintilla conscientiae” o sinderesi (generalmente intesa come la capacità naturale della coscienza di conoscere i princìpi morali
universali e quindi di distinguere naturalmente il bene dal male: cfr. S. Th. I-II, q. 91, a. 2, co.; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1780): s. Tommaso considera la “conscientia” come l'applicazione della conoscenza individuale a un atto particolare (v. Tommaso d'Aquino, Quaestiones disputatae de veritate, q. 17, a. 1, co.; cfr. anche a. 2, co. e a. 3, co. della quaestio cit.; S. Th. I, q. 79, a. 13, co.).
Il citato Tommaso d'Aquino, prendendo le distanze dall'opzione volontaristica del francescano, suo contemporaneo, s. Bonaventura da Bagnoregio – poi ripresa in maniera più sistematica da Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham –, assegna alla ragione e all'intelletto un primato sulla volontà (cfr. S. Th. I-II, q. 9, a. 1, co.) e si pone così al di fuori delle correnti volontaristiche (per i volontaristi la voluntas, la volontà, è preminente sulla ratio, sulla ragione, e, se una cosa è buona perché è voluta da Dio, non è voluta da Dio perché è buona)
medievali, che trovano le loro radici nel nominalismo di Severino
Boezio (celato sotto le parvenze di un moderato realismo ed estremizzato, alcuni secoli dopo, da Roscellino di Compiègne),
il quale nega ogni contenuto reale alle categorie aristoteliche (per
Aristotele le categorie hanno una valenza sia logica che ontologica e
sono i predicati ultimi e più generali dell'essere, quindi ciò che, in
maniera non ulteriormente riducibile, si può predicare in relazione a un
certo soggetto: ad esempio la sostanza, la qualità, la quantità, la
relazione, ecc.). Riprendendo da Cicerone e s. Agostino il concetto di lex aeterna (legge eterna), s. Tommaso considera la legge naturale una partecipazione ontologica, nella
creatura razionale (proporzionalmente alle capacità di quest'ultima),
della legge eterna (v. S. Th. I-II, q. 91, a. 2, co. e ivi a. 4, ad 1), che corrisponde al piano razionale con cui Dio, quale principe dell'universo, governa le cose (v. S. Th. I-II, q. 91, a. 1, co.). Alcuni partecipano più, altri meno della
conoscenza della verità e quindi conoscono più o meno anche la legge
eterna (v. S. Th. I-II, q. 93, a. 2, co.). Possiamo agevolmente comprendere che la legge naturale (intesa come complesso di regole di comportamento dettate dalla ragione e non dai meri istinti biologici, come invece pretenderebbe la riduttiva concezione naturalistica di essa: v. S. Th. I-II, q. 91, a. 6, co.) si estrinseca e si realizza come diritto naturale,
se spostiamo la nostra attenzione dalla dimensione puramente morale a
quella stettamente giuridica, che riguarda la regolamentazione delle relazioni di giustizia
fra gli uomini. Il vocabolo “iustitia” (“giustizia”) deriva da “ius” (e non viceversa, come riteneva erroneamente il giureconsulto romano Ulpiano: v. Ulp. 1 inst. D. 1.1.1 pr.), termine latino che indica il “diritto” e che, a giudizio di alcuni filologi, contiene in sé la radice sanscrita yu, che esprime il concetto di unire e obbligare, e/o quella yoh, che evoca la sfera del divino e del sacro. Per Ulpiano, “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi” (Ulp. 1 reg. D. 1.1.10 pr.; cfr. Giustiniano, Institutiones, 1.1 pr.), vale a dire: “Giustizia è la ferma e stabile volontà di attribuire a ognuno il suo diritto”.
Secondo
Tommaso d'Aquino, la promulgazione della legge naturale consiste nel
fatto che Dio l'ha inserita nelle menti degli uomini in modo che sia naturalmente conosciuta (v. S. Th. I-II, q. 90, a. 4, ad 1): benché la questione sia alquanto dibattuta, possiamo affermare che, al tempo dell'Aquinate, la “promulgatio legis”, cioè la “promulgazione della legge”,
s'identificava generalmente con la sua pubblicazione, in forza della
quale essa acquistava efficacia giuridica (cfr. Graziano, Concordia discordantium canonum, Dist. IV, c. 3). Lo stesso s. Tommaso ci
fornisce questa definizione di legge, divenuta celeberrima: “[lex] nihil est aliud quam quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet, promulgata” (S. Th. I-II, q. 90, a. 4, co.), che significa: “[la
legge] non è nient'altro che un comando [o, più compiutamente, un
ordinamento] della ragione finalizzato al bene comune, promulgato da chi
ha la responsabilità di una comunità”. Circa tredici secoli prima dell'Aquinate, Cicerone (che mutua dallo stoicismo la concezione secondo cui il Logos divino è presente non solo nella ragione umana, ma
in tutto il cosmo, il cui ordine necessario, immutabile e razionale
denota, per gli stoici, l'esistenza di due princìpi: uno passivo, la
materia, e l'altro attivo, il suddetto Logos, che permea la materia di razionalità) aveva scritto: “[...] lex est ratio summa insita in natura, quae iubet ea, quae facienda sunt, prohibetque contraria” (Marcus Tullius Cicero, De Legibus, I, VI, 18, secondo l'edizione contenuta in Cicero, On the Republic. On the Laws, The Loeb Classical Library, 213, translated by Clinton Walker Keyes, Harvad University Press, Cambridge, MA 1928, p. 316), vale a dire: “[...] la legge è ragione [“ratio”] somma insita nella natura, che comanda ciò che si deve fare e proibisce il contrario”. Per Cicerone nulla è più importante del comprendere pienamente che il diritto (“ius”) è stato stabilito non dall'opinione, ma dalla natura: “[...] nihil est profecto praestabilius quam plane intellegi [...] neque opinione, set [sic] natura constitutum esse ius” (ivi, I, X, 28, p. 328). In modo elementare, un giurista romano del II secolo d.C. chiamato Gaio, all'inizio delle sue famosissime Institutiones (1.1), dopo aver dichiarato che esiste un diritto comune a tutti gli uomini, afferma che “questo diritto, che la ragione naturale [“naturalis ratio”] ha stabilito fra tutti gli uomini, è osservato egualmente presso tutti i popoli e viene denominato diritto delle genti [“ius gentium”: cfr. Ulp. 1 inst. D. 1.1.1.4], come a significare che di quel diritto si servono tutte le genti” (le trad. it. sono mie).
Nei casi in cui il diritto umano positivo (costituito
dalle norme vigenti promulgate dall'autorità ecclesiastica o dallo Stato e dalle
organizzazioni internazionali, come ad esempio l'UE, in favore delle quali
lo Stato consente limitazioni della propria sovranità) rinneghi il diritto naturale,
mediante norme giuridiche ingiuste che ledono i diritti originari, inviolabili, inalienabili e imprescrittibili
della natura umana (quali, ad esempio, i diritti alla
vita, all'integrità fisica e psicologica, alla libera manifestazione del
proprio pensiero, al
rispetto e al buon nome, di cui ogni persona, per il solo fatto di
esistere, naturalmente gode), sussiste un vero e proprio diritto
naturale
alla rivoluzione o alla resistenza attiva (oltre che passiva, consistente in un atteggiamento non collaborativo, in un non facere) contro tali norme, così come, analogamente, è lecito, secondo Tommaso d'Aquino, resistere ai cattivi governanti come a dei briganti (v. S. Th. II-II q. 69, a. 4, co.; cfr. S. Th. II-II, q. 42, a. 2, ad 3; I-II, q. 105, a. 1, ad
5): anche da un punto di vista cristiano, non solo è lecito, ma
talvolta è persino doveroso resistere al malvagio (malgrado la
proibizione di Mt 5, 39) e opporsi attivamente alla violenza fisica e
morale per
difendere o ristabilire diritti non disponibili propri o altrui (cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 74h). Ovviamente questi diritti vengono resi effettivi nei rapporti
interpersonali solo se si impongono agli esseri umani i corrispondenti
doveri, perché i diritti soggettivi rischiano di rimanere mere
aspirazioni se gli altri non sono obbligati a rispettarli. Quindi è
compito del legislatore umano far sì che il diritto positivo attui le
esigenze del diritto naturale (in senso non
tanto teonomico quanto antropocentrico), anche se le norme giuridiche
da sole non bastano: occorre altresì educare le persone a vivere secondo
la legge naturale dettata dalla ragione, che non è sempre percepita da
tutti chiaramente e immediatamente, affinché l'habitus, inteso come la disposizione a comportarsi in un certo modo, si consolidi in abitudine. Una legge umana in tanto ha natura e vero valore di legge, in quanto si uniforma alla retta ragione (cfr. Marcus Tullius Cicero, De Re Publica, III, XXII, 33, in Cicero, On the Republic. On the Laws, cit., p. 210), ovvero in quanto deriva dalla legge naturale: pertanto, nella misura in cui essa si discosta dalla ragione, non ha più natura di legge, ma di violenza (v. S. Th. I-II, q. 93, a. 3, ad 2), perché una legge umana che si allontana in qualcosa dalla legge naturale non è più legge, ma corruzione della legge (v. S. Th. I-II, q. 95, a. 2, co.). Il marcato disagio sociale dei nostri giorni dimostra che la violazione sistematica della legge naturale
comporta sanzioni molto più dure di quelle previste per le trasgressioni delle leggi positive umane (cfr. il Post La vittoria di Antigone). Ne consegue che l'obbedienza al diritto naturale non significa affatto un'obbedienza passiva all'ordine sociale costituito (un'obbedienza, cioè, concepita come un prodotto di quella che i marxisti denominano “ideologia di classe”),
perché il diritto naturale non rappresenta una traduzione in astratti
termini giuridici di una realtà di stratificazioni sociali o di classe
che si pretendono predisposte ab aeterno, sebbene storicamente il
concetto di diritto naturale sia stato spesso invocato per giustificare
privilegi contrari al diritto naturale stesso: infatti “[...] quod ad ius naturale attinet, omnes homines aequales sunt” (Ulp. 43 ad Sab. D. 50.17.32), cioè “[...] per quanto attiene al diritto naturale, tutti gli uomini sono uguali” (v. anche Ulp. 1 inst. D. 1.1.4).
La nota
distinzione vichiana tra certo e vero (v. G. Vico, Principj di scienza nuova, Libro primo, Sezione seconda,
IX e X), secondo cui gli “uomini che non sanno il vero delle cose proccurano [sic] d’attenersi al certo” (Giambattista Vico, La scienza nuova, giusta l'edizione del 1744, Parte prima, a cura di Fausto Nicolini, Gius. Laterza & figli, Bari 1911, p. 119), si può applicare anche alle differenze tra diritto positivo umano
(fondato sull'“equità civile”: v. ivi, CX e CXI) e diritto naturale (fondato
sull'“equità naturale”: v. ivi, CXIV), come indicano la “Degnità”
CXI: “Il certo delle leggi è un’oscurezza
della ragione unicamente sostenuta dall’autorità”, e la definizione CXIII: “Il vero delle leggi è un certo lume e
splendore di che ne illumina la ragion naturale” (Giambattista Vico, op. cit., pp.
168-169).
In
questi ultimi anni, in cui il senso di giustizia si è profondamente corrotto e
il popolo si fa sedurre da demagoghi/e privi/e di moralità e umanità,
l'appello ai princìpi del diritto naturale (che la ragione da sola può, seppur faticosamente, scoprire e
riconoscere, anche nell'eventualità in cui Dio non esistesse o non si curasse degli affari umani: cfr. Hugonis Grotii [Ugo Grozio], De iure belli ac pacis libri tres, “Prolegomena”
[11, nelle edizioni più recenti con i capoversi numerati], apud Nicolaum
Buon, Parisiis
1625, s.i.p.) costituisce un forte richiamo alla razionalità, prima ancora che alla
volontà divina (nel
pensiero tomista, la perfetta corrispondenza in Dio tra volontà e
ragione fa sì che Egli possa volere solo ciò che è razionale), e al limite di ragione che bisogna porre
all'arbitrio dei potenti, perché alla mutevole sovranità degli esseri
umani e delle loro leggi contrappone l'immutabile sovranità della legge naturale e
rappresenta un baluardo contro le suggestioni dei relativisti radicali, i
quali, desiderosi di affrancarsi da ogni freno morale e giuridico,
predicano da secoli, in modo ripetitivo (quasi fossero affetti da psittacismo), che è impossibile individuare delle azioni che siano “bona” o “mala in se” (“beni” o “mali in sé”, riconoscibili come tali da ogni retta ragione), ma solo “mala quia prohibita” (cioè atti che sono considerati “mali”, nel senso di illeciti, solo “perché proibiti” e che quindi non sono proibiti e puniti perché “mali in sé”, ossia intrinsecamente “cattivi”, portatori di un intenso disvalore), e si perdono nelle contraddizioni dei loro sofismi. In verità, a giudizio di diversi antropologi e criminologi (tra cui
Edward Adamson Hoebel e Maurice Cusson), esistono comportamenti che,
salvo qualche rara eccezione, sono stati sempre percepiti e giudicati
come negativi in tutte le comunità umane: ad esempio, il furto e l'omicidio ai danni di un membro del proprio gruppo sociale.
Nel
1983, Konrad Lorenz pubblicò, in un'opera edita in Italia l'anno seguente, queste
osservazioni ancora attuali: “In questo momento i processi creativi che
si verificano nell’ambito delle nostre sensazioni di tipo valutativo sono i
soli processi creativi che svolgano ancora una funzione essenziale sul nostro
pianeta. Abbiamo il preciso dovere di riconoscere che sono dei processi reali e
di obbedire agli imperativi – categorici nel senso più vero di questa
parola – che ci rivolgono” (Konrad Lorenz, Il
declino dell'uomo, trad. it. di A. Casalegno, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano 1984, p. 118).
Tradizionalmente, nella teologia morale, è considerata retta la coscienza che riconosce, “secundum veritatem” (“secondo verità”), la qualità morale di un atto concreto, la coscienza “che detta una cosa vera” (v. Goffredo di Fontaines, Quodlibet, XII, q. 2; Giuseppe Frassinetti, Compendio della teologia morale di S. Alfonso M. de' Liguori, Vol. I, ristampa dell'Undicesima Edizione, Società Editrice Internazionale, Torino 1944, p. 7; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1778 e 1780).
Nell'ambito del giusnaturalismo
(cioè delle dottrine che affermano l'esistenza del diritto naturale), i
confini e i contenuti del diritto naturale sono
da millenni oggetto di un vivace e intenso dibattito, che appare
sensibilmente condizionato dalle ideologie professate e dalle convinzioni personali degli studiosi.
Alcuni critici del giusnaturalismo, appellandosi alla c.d. “legge di Hume”,
sostengono erroneamente che, poiché non è possibile dedurre conclusioni prescrittive
da premesse descrittive, il diritto naturale si fonderebbe solo su
delle “convenzioni”,
come quella di considerare giusto tutto ciò che accade in natura, non
comprendendo che il diritto naturale descritto sopra non scaturisce
dalla semplice osservazione e interpretazione della natura, ma dalla “ratio”, dalla “ragione” (v. S. Th. I-II, q. 91, a. 6, co.; I-II, q. 94, a. 1, co.), che, per s. Tommaso, “prende il nome di ragione dalla ricerca e dal processo discorsivo”: “[...] sumitur [...] nomen autem rationis ab inquisitione et discursu” (S. Th. II-II, q. 49, a. 5, ad 3).
In antitesi con la dottrina della “doppia verità” (in linea di massima, la verità della ragione filosofica e quella della fede religiosa), la Chiesa Cattolica ha stabilito che fede e ragione non possono mai essere
in contrasto fra loro: infatti, poiché il medesimo Dio che rivela i
misteri e infonde la fede, ha infuso anche il lume di ragione nell'animo
umano, Egli non può negare se stesso, né la verità può mai contraddire
la verità (v. Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. “Dei Filius” de fide catholica: DS 3017-3019; cfr. Conc. Ecum. Lateran. V, Bulla “Apostolici regiminis”: DS 1441).
La
violazione sistematica dei diritti umani, un tempo occultata, oggi
viene sempre più sbandierata come fonte di consenso politico-elettorale,
determinando così un pervertimento del senso morale dei cittadini, in
cui si inocula – in nome dell'egoismo individuale o di gruppo e dell'affermazione della propria identità contro quelle altrui – il
veleno della disumanità e della cattiveria, due sentimenti negativi di
cui non ci si vergogna nemmeno più e che attualmente, proprio perché assecondati e alimentati a livello istituzionale, diventano
sempre più contagiosi, fino a essere considerati da molte persone
normali e accettabili, in quanto sono spesso le istituzioni stesse a
legittimarli, inasprendo a dismisura le pene, ostentando immoralità e indifferenza verso i deboli e i sofferenti, svalutando la giustizia e la solidarietà sociali, che sono coessenziali a qualsiasi sistema democratico, e
indebolendo o riducendo i diritti dei semplici cittadini (v., ad esempio, l'abrogazione dell'art. 323 Cod. Pen. it., che puniva l'abuso d'ufficio).
Torna con amarezza alla mente quanto Lev Nikolaevič Tolstoj scrive in Resurrezione: “[…] di
tutti gli uomini che vivevano in libertà, tramite il tribunale e
l’amministrazione si sceglievano i più nervosi, passionali, eccitabili,
dotati e forti, e i meno furbi e prudenti, e costoro, nient’affatto più
colpevoli o pericolosi per la società degli altri che restavano in
libertà, venivano in primo luogo rinchiusi in carceri, stazioni di
tappa, bagni penali, dove venivano tenuti per mesi e anni in ozio
assoluto, senza preoccupazioni materiali e lontano dalla natura, dalla
famiglia, dal lavoro, cioè al di fuori di tutte le condizioni di una
vita naturale e morale. Questo in primo luogo. In secondo luogo in
questi istituti erano sottoposti a ogni genere di umiliazioni inutili:
catene, teste rasate, divisa infamante, venivano cioè privati di quello
che per i deboli è lo stimolo principale a una vita onesta: l’opinione
della gente, la vergogna, la coscienza della dignità umana. In terzo
luogo, essendo esposti a un continuo pericolo di vita per le malattie
contagiose endemiche nei luoghi di reclusione, lo sfinimento, le
percosse (senza parlare dei casi eccezionali di insolazione,
annegamento, incendio), essi si trovavano costantemente in una
situazione in cui il migliore, il più morale degli uomini per istinto di
sopravvivenza commette e giustifica negli altri gli atti più atroci e
crudeli. In quarto luogo erano forzatamente riuniti a depravati,
assassini e malfattori eccezionalmente corrotti dalla vita (e in
particolare da quelle stesse istituzioni), che agivano come il lievito
nella pasta su tutti coloro che i mezzi impiegati non avevano ancora
completamente corrotto. E in quinto luogo, infine, in tutte le persone
soggette a queste azioni si inculcava nel modo più convincente, e cioè
per mezzo di ogni genere di atti disumani perpetrati su di loro, come la
tortura dei bambini, delle donne, dei vecchi, le percosse, la
fustigazione con le verghe e con le fruste, la ricompensa per chi
consegnava vivo o morto un ricercato, la separazione dei mariti dalle
mogli e la convivenza forzata con mogli e mariti altrui, la fucilazione,
l’impiccagione – s’inculcava nel modo più convincente l’idea che
qualsiasi violenza, crudeltà, atrocità non solo non è proibita, anzi è
autorizzata dal governo, quando gli torni utile, e perciò è tanto più
lecita per chi si trova in prigionia, nell’indigenza e nella sventura” (Lev Nikolaevič Tolstoj, Resurrezione, trad. it. di E. Guercetti, XV edizione, Garzanti, Milano 2015, pp. 441-442).
Il fine non giustifica mai i mezzi: quindi non è mai moralmente lecito fare il male in vista del bene proprio o altrui che ne potrebbe derivare (v. Rm 3, 8; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1753, 1756, 1761 e 1789): è pertanto auspicabile – dal punto di vista etico – riconsiderare radicalmente i sistemi penali, che ancor oggi rendono possibili immani ingiustizie e crudeltà.
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